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Devo aver sognato, si ripetè Tika, spaventata. Mi chiedo se mi abituerò mai a dormire da sola...

Ogni più piccolo rumore mi fa svegliare del tutto.

Rintanandosi un’altra volta nel letto, cercò di rimettersi a dormire. Stringendo gli occhi con forza, Tika finse che Caramon si trovasse là. Giaceva accanto a lui, premuta contro il suo ampio petto, e lo sentiva respirare, sentiva battere il suo cuore, caldo, sicuro. La mano di Caramon le batté sulla spalla mentre lui mormorava sonnacchioso, «È soltanto un brutto sogno, Tika... domattina sarà tutto sparito...»

Toc, toc, toc.

Tika spalancò gli occhi. Non aveva sognato! Il rumore, qualunque fosse la causa, veniva da sopra!

Qualcuno, o qualcosa, era là in alto... in alto, sul vallenwood!

Buttando da parte le coperte e muovendosi furtiva, in silenzio, come aveva imparato durante le sue avventure guerresche, Tika afferrò una vestaglia dai piedi del letto, si contorse per infilarsela (era tanto nervosa che confuse le maniche), e scivolò fuori dalla camera da letto.

Toc, toc, toc.

Strinse le labbra con decisione. Qualcuno era là sopra, sopra la sua nuova casa. La casa che Caramon stava costruendo per lei, in alto tra i rami del vallenwood. Cosa stavano facendo?

Rubando? C’erano gli arnesi di Caramon...

Tika quasi scoppiò a ridere, ma invece venne fuori un singhiozzo. Gli arnesi di Caramon! Il martello con la testa sbilenca che volava via tutte le volte che colpiva un chiodo, la sega alla quale mancavano tanti denti da farla assomigliare a un nano dei fossi sogghignante, la pialla che non avrebbe lisciato neanche il burro. Ma erano oggetti preziosi per Tika. Non li aveva toccati, erano sempre dove li aveva lasciati lui.

Toc, toc, toc.

Dopo che ebbe strisciato fuori nel soggiorno della sua piccola casa, Tika aveva già la mano sulla maniglia della porta quando si fermò.

«Un’arma,» borbottò. Lanciò una rapida occhiata intorno a sé e agguantò la prima cosa che vide: la sua pesante padella di ferro. Stringendola saldamente per il manico, Tika aprì lentamente e in silenzio la porta d’ingresso e sgusciò fuori.

I raggi del sole stavano giusto illuminando le cime delle montagne, facendo risaltare le loro vette coperte di neve contro il cielo limpido e azzurro. La rugiada scintillava sull’erba, trasformandola in uno scrigno pieno di gioielli, l’aria del mattino era dolce, frizzante e pura. Le nuove foglie dei vallenwood, d’un vivido verde, frusciavano e quasi sembravano ridere man mano che il sole le toccava, svegliandole. Quel mattino era talmente fresco, chiaro e luccicante che avrebbe potuto benissimo essere il primissimo mattino del primissimo giorno, con gli dei che contemplavano sorridenti la loro opera.

Ma Tika non stava pensando agli dei, o al luminoso mattino, o alla rugiada che era fredda sui suoi piedi nudi. Stringendo la padella in una mano, tenendola nascosta dietro la schiena, salì furtiva i pioli della scala che conducevano fino alla casa incompiuta, appollaiata fra i robusti rami del vallenwood. Giunta quasi alla cima, si fermò, sbirciando oltre l’orlo.

Ah, ah! C’era qualcuno lassù! Riuscì a malapena a distinguere una figura rannicchiata in un angolo in ombra. Tirandosi oltre l’orlo, sempre senza produrre il minimo rumore, Tika attraversò con passi furtivi il pavimento di legno, aumentando la stretta delle sue dita sulla padella.

Ma mentre attraversava il pavimento, strisciando alle spalle dell’intruso, le parve di udire una risatina soffocata.

Esitò, poi proseguì risolutamente. È soltanto la mia immaginazione, si disse, avvicinandosi alla figura ammantata. Adesso poteva vederlo con chiarezza: era un uomo, un umano, e a giudicare dalle braccia nerborute e dalle spalle robuste, era uno degli uomini più grossi che Tika avesse mai visto!

Era carponi, con l’ampia schiena girata verso di lei, e lo vide sollevare una mano. Stringeva il martello di Caramon!

Come osava toccare le cose di Caramon ! Ah, grosso o no che fosse, erano tutti dello stesso formato quand’erano distesi sul pavimento.

Tika sollevò la padella...

«Caramon! Attento!» gridò una vocina stridula.

L’omone balzò in piedi e si girò. La padella cadde sul pavimento con un sonoro sferragliare. Lo stesso accadde al martello e a una manciata di chiodi.

Tika strinse il marito fra le braccia con un singhiozzo di gratitudine.

«Non è meraviglioso, Tika? Scommetto che sei rimasta sorpresa, non è vero? Sei rimasta sorpresa, Tika? E, dimmi, avresti davvero picchiato forte Caramon sulla testa se io non ti avessi fermato?

Sarebbe stato interessante da guardare, anche se non credo che avrebbe fatto molto bene a Caramon.

Ehi, ricordi quando hai colpito quel draconico sulla testa con la padella, quello che stava per maltrattare Gilthanas? Tika?... Caramon?»

Tas guardò i suoi due amici. Non stavano dicendo una sola parola. Non sentivano una sola parola.

Se ne stavano stretti l’uno all’altra e basta. Il kender sentì un’umidità sospetta salirgli agli occhi.

«Be’,» disse deglutendo e sorridendo, «scendo giù e vi aspetto in soggiorno.»

Scivolando giù per la scala, Tas entrò nella piccola casa ordinata che si trovava all’ombra del vallenwood, e una volta dentro, tirò fuori un fazzoletto, si soffiò il naso e poi cominciò ad esplorare allegramente i mobili.

«A quanto pare,» disse fra sé, ammirando talmente un nuovissimo vaso per dolci da cacciarlo distrattamente in una delle sue borse (dolci compresi), fermamente convinto di averlo rimesso sullo scaffale, «Tika e Caramon resteranno lassù per un bel po’, forse perfino per tutto il resto della mattina. Forse sarebbe una buona occasione per rimettere ordine tra la mia roba.»

Sedendosi a gambe incrociate sul pavimento, il kender rovesciò allegramente le sue borse, sparpagliando il contenuto sul tappeto. Mentre sgranocchiava distrattamente qualche dolce, lo sguardo orgoglioso di Tas andò a un intero fascio di nuove mappe che Tanis gli aveva dato.

Srotolandole l’una dopo l’altra, il suo piccolo dito tracciò il percorso di tutti i luoghi meravigliosi che aveva visitato durante le sue molte avventure.

«Sono stati dei bei viaggi,» disse dopo un po’, «ma sicuramente è ancora più bello tornare a casa.

Rimarrò qui con Tika e Caramon. Saremo tutti una famiglia. Caramon mi ha detto che potrò avere una stanza nella nuova casa e... diamine, questo cos’è?» guardò più da vicino la mappa. «Merilon?

Non ho mai sentito parlare di una città chiamata Merilon. Chissà com’è...

«No!» replicò Tas. «Hai finito con le avventure, Burrfoot. Già così hai abbastanza storie da raccontare a Flint. Ti sistemerai e diventerai un rispettabile membro della società. Forse perfino Gran Sceriffo.»

Arrotolando la sua mappa, tra amabili sogni della sua presentazione alle elezioni di Gran Sceriffo, voltò le spalle alle mappe e ricominciò a rovistare fra i suoi tesori. «Una penna bianca di pollo, uno smeraldo, un topo morto... uh, dove diavolo l’ho preso? Un anello modellato così da assomigliare ad un piccolo serto d’edera, un minuscolo drago dorato... è strano, certamente non mi ricordo di averlo messo in borsa. Un cristallo azzurro rotto, un dente di drago, dei petali bianchi di rosa, un vecchio coniglio di pezza tutto consumato di qualche ragazzino e, oh, guarda, ecco i disegni di Gnimsh per l’ascensore e... cos’è questo? Un libro! Tecniche di Prestidigitazione per Stupire e Deliziare! Ora, questo sì che è interessante, sono sicuro che mi verrà buono e... oh, no,» Tas corrugò la fronte, irritato, «di nuovo quel braccialetto d’argento di Tanis. Mi chiedo come faccia a conservare qualcosa, quando io non gli sono intorno a raccogliere tutto quello che lui perde. È estremamente sbadato. Mi chiedo come Laurana faccia a sopportarlo.»

Sbirciò dentro la borsa. «È tutto, credo.» Sospirò. «Be’, sicuramente è stato interessante. Per la maggior parte davvero meraviglioso. Ho incontrato parecchi draghi. Ho fatto volare una cittadella.