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Dopo colazione andò a far visita a Trijiat, e poi accompagnò Aduvan e il fratellino dal calzolaio, dall’altra parte della città, per lasciare da risuolare le scarpe più belle della loro madre. La bambina chiaccherò per tutta la strada, e il piccino trillava come un grillo. Avevano la testa piena di una storia di fantasmi o qualcosa del genere che qualcuno gli aveva raccontato, e continuavano a chiedere a Irene se non aveva avuto paura, quando era salita su per la montagna. Virti corse avanti, si nascose dietro un portico, balzò fuori verso di lei, lanciando suoni terrificanti come un grillo isterico, e lei lanciò doverose grida di sgomento e di orrore. — Devi cadere! — disse Virti, ma Irene rifiutò di cadere. Dopo aver sbrigato la commissione, lasciò i bambini dalla loro nonna, e lasciò la strada principale della cittadina, dirigendosi verso la più ripida delle vie selciate che salivano il fianco della collina; era così erta che a volte si spezzava in gradini, come una persona prorompe in risatine o singhiozzi, e poi riprendeva l’ascesa fino a un’altra crisi convulsa di scalini. In alto c’era il muro del giardino del maniero, e la porta ad arco spiccava bellissima contro il cielo limpido. Svoltando a destra prima di raggiungere la porta, Irene si soffermò un momento, e alzò lo sguardo verso la casa del Padrone.

Una dozzina di abbaini e di tetti spioventi tagliavano netti angoli scuri nel cielo; le finestre e i bovindi a molti vetri non erano mai allo stesso livello, ed era impossibile contare i piani della casa, se non per la presenza di tre grandi travi attraverso la facciata. La porta era massiccia, suddivisa in dodici pannelli. Mentre alzava il picchiotto d’ottone per batterlo sul disco lucido, Irene ricordò che aveva sognato molte volte quella porta, dall’altra parte.

Fimol, la governante, eretta e imperturbabile nella veste grigia dal collo alto, le maniche lunghe e la lunga gonna, aprì la porta pesante e fece entrare la visitatrice nella casa del Padrone. Fimol non sorrideva mai, e Irene aveva sempre soggezione di lei. Notò, quasi con un senso di slealtà, mentre la seguiva, che i capelli di Fimol erano imbiancati, che la figura impettita era esile, la figura di una donna fragile e anziana. Entrarono nella grande sala.

Era il centro della casa, quella stanza dall’alto soffitto. Di fronte alla lunga parete rivestita da pannelli di quercia c’erano dodici grandi finestre dai vetri al piombo affacciati sul giardino a gradinate. I pochi mobili erano di quercia scolpita, i tappeti erano di produzione locale, cremisi, arancione e marrone, e riscaldavano la stanza anche quando le candele non erano accese e c’era solo il limpido, costante crepuscolo che entrava dalle finestre. A ognuna delle due estremità della sala c’era un enorme camino di pietra; e sopra ognuno di essi, sopra l’ampio focolare e la mensola, era appeso un ritratto: una dama rigida e malinconica fissava attraverso la sala, con i tondi occhi neri, il suo signore, che nascondeva la mano destra storpiata all’interno della giacca e le rivolgeva una smorfia cupa.

Alla destra del camino più lontano, presso la porta che dava nei suoi uffici, il Padrone stava conversando con il tagliapietre, Gahiar. Quando vide Irene entrare insieme alla governante, la fissò con quella cupa smorfia ancestrale; poi la sua espressione cambiò; si staccò da Gahiar e attraversò la lunga sala, tendendo le mani. — Irena! Sei arrivata! — Era l’accoglienza che lei aveva immaginato spesso, nelle sue fantasticherie; ma non se l’era aspettata, e non si era mai chiesta cosa sarebbe venuto dopo.

Il Padrone, o sindaco, di Tembreabrezi era un uomo scarno e olivastro con il naso aquilino e gli occhi scuri. Portava calzoni neri di stoffa tessuta in casa, un po’ stinti sul tono ruggine e accuratamente rammendati, e il panciotto e la giacca della stessa stoffa. Era un uomo aspro, un uomo cupo. Lei lo aveva amato dalla prima volta che l’aveva visto. Il Padrone la condusse nel suo ufficio, dove c’era il fuoco acceso, e le tende erano chiuse, come per scacciare il grigiore d’una giornata invernale. Le offrì una sedia; e aiutata dalla dignità dei propri abiti, una gonna rossoscura e una camicetta tessuta in casa che Palizot teneva sempre in serbo per lei, Irene sedette senza goffaggine. Il Padrone restò accanto all’alto scrittoio dove lavorava in piedi (era un uomo che raramente si faceva vedere seduto) e volse su di lei lo sguardo intenso. Irene trasse un profondo respiro e tacque, con le mani in grembo.

— È passato molto tempo, Irena.

— Non potevo venire.

— La strada…?

— Non riuscivo a trovare… — E non riusciva neppure a trovare le parole necessarie. — Il posto — disse, e poi, ricordando che chiamavano così l’arco di pietra all’ingresso del maniero, soggiunse: — La porta. Era chiusa.

— Non potevi camminare sulla strada? — disse lui; non era spazientito dall’impaccio di lei, ma attento, in modo quasi ossessivo.

— Quando ho… quando ho potuto raggiungere la strada, sono riuscita a percorrerla. Ma all’inizio… — Irene s’impappinò di nuovo.

— Avevi paura.

La voce del Padrone era gentile; lei non l’aveva mai sentito parlare così gentilmente.

— Quando ho varcato la porta. Era trascorso tanto tempo. E là, nel luogo dell’inizio, accanto al fiume, c’era…

Il Padrone disse una parola, quasi in un sussurro. Era la parola che il piccolo Virti aveva gridato, quando giocava a fare il mostro e lei non aveva voluto cadere, e Aduvan l’aveva rimproverato. Stai zitto, non dirlo, e i due bambini erano apparsi sovreccitati, sul punto di piangere. Un enorme, pallido braccio deforme proteso sull’erba…

— Un uomo — disse Irene. — Uno straniero.

Il Padrone ascoltava, intento, vigile.

— Uno straniero, come me. Non come me, ma… — Lei non conosceva altro modo per dirlo. Il Padrone, che evidentemente aveva compreso, annuì.

— Hai parlato con lui?

— No. Dormiva. Sono passata oltre. Non volevo… Avevo paura… — S’impappinò di nuovo. Non poteva spiegare il suo primo istante di panico. Sicuramente, lui avrebbe compreso perché una donna sola poteva aver ragione d’aver paura d’uno sconosciuto. Ma non seppe esprimere la rabbia che provava ora, rievocando la sua paura, e ricordando lo sconosciuto, il grosso dormiente, la lettiera di rifiuti di plastica, il senso di profanazione e di pericolo. Strinse le mani in grembo, con forza, e lottò con le parole che cercava, imponendosi di parlare. — Se lui ha trovato la porta, forse altri la troveranno. C’è… c’è tanta, tanta gente, là…

Se anche il Padrone comprendeva cosa intendesse lei con «là», la sua unica reazione fu un cupo cipiglio.

— Devi difendere le tue mura, Padrone! — disse Irene, disperatamente. Avrebbe voluto dire «frontiera» ma non conosceva quella parola, nella lingua di lui, né altre parole che significassero «confine» o «recinzione», eccettuata quella che indicava un muro di legno o di pietra.

Lui annuì. Ma disse: — Non ci sono muri, Irena. E ora, per noi, non vi sono più strade.

Il tono della voce la fece ammutolire. Il Padrone si volse verso lo scrittoio e dopo qualche istante continuò, con la stessa quiete forzata: — Non possiamo percorrere le strade. Sono chiuse. Tu sai che alcune ci sono chiuse da lungo tempo. La strada del sud, la tua strada… sai che non la usiamo. — Irene non l’aveva saputo, e lo fissò senza comprendere. — Ma avevamo i pascoli estivi e il Gradino Alto, e tutte le strade orientali, e quella del nord. Ora non li abbiamo più. Nessuno viene da Tre Fontane, o dai villaggi ai piedi delle colline. Neppure un mercante. Non viene nulla dalle pianure. Non giungono notizie dalla Città del Re. Per qualche tempo abbiamo potuto andare verso ovest, su per la montagna, lungo i sentieri, ma ora non più. Tutte le porte di Tembreabrezi sono sbarrate.