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Hugh li guardò, come per controllare che ci fosse tutto. Non osò voltarsi indietro. Temeva che, se avesse guardato dietro di sé, il crepuscolo si sarebbe levato per accompagnarlo. La donna, una ragazza della sua età, era ferma sul sentiero: capelli neri, occhi neri, viso bianco.

— Che luogo è questo? — le chiese. — Lo sai?

Lei non rispose subito, e Hugh pensò che non intendesse farlo. — Se fosse il tuo posto, lo sapresti — disse invece la ragazza con quella sua voce esile e aspra.

— Io devo… — Hugh non riuscì a pronunciare le parole. Perché restava lì immobile, a lasciare che lei lo svergognasse? Si sentiva il viso accaldato e irrigidito: aveva pianto? Si strofinò la mano sulla mascella, nascondendo la bocca, per nascondere la vergogna.

— Non è un campeggio per giovani esploratori — disse lei. — Non è fatto perché tu ci porti la tua robaccia e ti ci accampi e… Non è un parco statale. Tu non ne sai niente. Non conosci le regole. Non parli la lingua, non conosci le loro… Non è il tuo posto. Non è fatto per te. Non è sicuro.

La collera non affiorava per liberarlo dalla vergogna. Doveva restare lì e ascoltare quello che lei diceva, e poi ripetere l’unica cosa che aveva da dire: — Io devo tornare. — La sua voce era un mormorio. — Non lascerò niente là.

La ragazza tremò di rabbia come un frammento di giornale squassato dal vento, un pezzo di carta in fiamme.

— Ti avverto!

Ciò che gli aveva detto prima stava incominciando a imprimersi nella mente di Hugh. — C’è… c’è gente che vive qui?

Dopo una lunga pausa, lei disse: — Sì.

Gli occhi della ragazza lampeggiarono stranamente nella luce irrequieta.

— Ti stanno aspettando — disse poi, con quella voce soffocata e irridente, e all’improvviso avanzò e passò oltre Hugh, non tornò indietro, come lui si aspettava, scendendo il sentiero verso quella terra crepuscolare, ma lo superò, brusca, svelta, concreta, e continuò a procedere nel mattino. Dopo poco più di un metro la massa dei cespugli la nascose, e dopo un altro momento anche il suono lieve dei suoi passi svanì.

Hugh rimase sbalordito e svuotato nell’aria tepida e leggermente polverosa del bosco, continuamente scossa dalla vibrazione di macchine lontane. Una chiazza di luce solare filtrava tra le foglie e danzava sull’involucro marrone del suo sacco a pelo, in un movimento incessante.

E adesso dove andrò? Non ho nessun posto dove andare.

Era stanco, esausto dalle emozioni… collera, paura, angoscia. Si sedette sul bordo del sentiero, con una mano sullo zaino, per proteggerlo, o forse per cercare sicurezza. La spaventosa sofferenza della privazione non l’abbandonava, non diminuiva.

Forse lo sente anche lei, pensò. È come se io glielo avessi tolto.

Ma non posso farne a meno. Devo ritornare. Non ho nessun altro posto dove andare. Lei non ha il diritto… Quella non era la parola più appropriata, ma Hugh non sapeva come esprimersi altrimenti.

Tornerò. Non lascerò qui la mia roba. Almeno, non nella radura della porta. Potrei andare oltre… risalire il ruscello per un tratto. Lei non può andare dovunque. Non c’è ragione perché dobbiamo incontrarci mai più.

A meno che io non possa più uscire.

Quel pensiero passò lieve attraverso la sua mente. Il terrore panico che l’aveva dominato quando la porta aveva condotto soltanto nel proseguimento del crepuscolo era già sprofondato dentro di lui, troppo per riemergere facilmente. Se è ancora così, posso aspettare, si disse, e passare con lei, quando verrà.

Lei è come me; viene da qui. Ma ha detto che qui c’è gente che ci vive.

Ma la sua mente si scostò anche da quel pensiero. Non è necessario che io li incontri. Non c’è mai stato nessuno, nel luogo in riva al ruscello. E adesso lei se ne è andata. Tornerò…

Spinse la sua roba sotto i cespugli impolverati e spinosi, si alzò, e ridiscese il sentiero verso la soglia, entrò nel crepuscolo, giunse all’acqua limpida dove, finalmente, s’inginocchiò e bevve. L’acqua gli lavò la faccia e le mani, portò via la vergogna e la paura. — Questa è la mia patria — disse alla terra e alle rocce e agli alberi, e con le labbra quasi a contatto dell’acqua, bisbigliò: — Io sono te. Io sono te.

Arrivò a Sam’s Thrift-E-Mart alle dieci, e alle dieci e cinque aprì la Cassa Sette. Donna alzò la testa dal registratore della Sei. — Stai bene, Buck?

Per Hugh erano trascorsi due giorni e tre notti da quando aveva lasciato il lavoro con un’ora d’anticipo, ieri pomeriggio; non ricordava perché Donna poteva pensare che lui non stesse bene.

Lei lo squadrò dalla testa ai piedi con un’espressione curiosa, cinica e tuttavia ammirata. — Non stavi affatto male — gli disse. — Avevi qualcosa di meglio da fare. — Poi batté il prezzo d’una confezione di cola da sei e un pacchetto di salatini al formaggio per un vecchio tremulo e con la barba ispida, dicendo a lui e a Hugh: — Non è meraviglioso essere giovani? Ma io non vorrei passarci di nuovo neppure se mi pagaste.

Hugh non esplorò molto avanti, verso valle. La gola del ruscello diventava più profonda; sembrava sempre più buio in quella direzione. Verso monte, rispetto alla radura della porta, il sottobosco era meno fitto, e in molti punti le rive del ruscello erano sgombre, ampie e sabbiose. Giunse in un luogo dove il ruscello, sotto un filare di grandi salici, veniva strozzato da uno sperone di roccia rossa che tagliava obliquamente il suo corso in gradini e ripiani. Al disopra dell’acqua bianca c’era uno specchio profondo e allungato. Le rive erano sovrastate dagli alberi, ma il minuscolo laghetto era scoperto, sotto il cielo. Quel luogo aveva un’atmosfera remota, racchiusa: nessun altro sarebbe venuto lì.

Hugh preparò un nascondiglio per la sua roba nella biforcazione di un albero basso, così avviluppato da un rampicante a foglie minute che restò celato persino al suo sguardo fino a quando non vi mise le mani. Raccolse un po’ di legna da ardere, quasi tutti rami di un vicino albero morto, e scavò un focolare nella sabbia della riva riparata, appena al disopra della barriera di roccia rossa. Preparò il fuoco. Poi si tolse la camicia e i jeans e in silenzio, eretto, si immerse nel laghetto immobile. Accanto alla barriera di roccia, l’acqua era più alta di lui. Nuotò, con una gioia silenziosa e intensa, fino a quando non sopportò più il freddo, e si diresse verso la riva, rabbrividendo e intormentito dai crampi, e accese il fuoco.

Le fiamme erano bellissime nel crepuscolo limpido. Si accovacciò nudo perché il calore gli penetrasse nella pelle, nelle ossa. Alla fine si vestì e si preparò una tazza del miscuglio dolce, caffè-cioccolato, che aveva comprato in offerta speciale, e sedette a berlo, in pace. Quando il fuoco si fu consumato, ne coprì ogni traccia con la sabbia, rimise le scarpe, e si incamminò per esplorare ancora più avanti, verso monte.

Ormai ci veniva tutti i giorni. Metà della sua vita la trascorreva nella terra crepuscolare. Quando era lì, persino il ritmo del suo respiro era diverso, più profondo. Quando si svegliava dal sonno che dormiva lì, un sonno più profondo del sogno, oscuro e irresistibile come le correnti del ruscello, rimaneva disteso per un po’, pigramente, ascoltando lo scorrere dell’acqua e il fruscio delle foglie, pensando: Resterò qui… resterò ancora un poco… Non lo faceva mai. Quando era al lavoro, nel supermercato, o quando era a casa, non pensava molto alla terra crepuscolare. Esisteva: non aveva bisogno di sapere altro, mentre batteva un conto di sessanta dollari o calmava sua madre, dopo una giornata faticosa alla società di prestiti dove lei lavorava. Esisteva, e lui poteva tornarvi, tornare al silenzio che dava significato alle parole, al centro che dava forma al mondo.