Hugh non vide mai il biglietto, sebbene Joanna avesse ripetuto un paio di frasi del testo, come «il momento buono per rompere», e lui sapesse che sua madre lo teneva insieme alle carte e alle fotografie in una cassettina.
Lui aveva preso brutti voti, per il resto di quel semestre, perché sua madre aveva usato tutti i mezzi per impedirgli di andare a scuola, di solito facendosi venire una crisi di pianto a colazione. — Tornerò, vado solo a scuola. Tornerò alle tre e mezzo — prometteva lui. Sua madre piangeva e l’implorava di restare con lei. Quando restava, non sapeva cosa fare per passare il tempo, se non leggere vecchi album a fumetti; aveva paura di uscire e aveva paura di rispondere al telefono, nell’eventualità che fosse l’ispettore scolastico; e sua madre non sembrava mai contenta di averlo vicino. Quell’estate avevano traslocato per la prima volta, e lei s’era trovata un lavoro. Le cose andavano sempre meglio, per un po’, nei posti nuovi.
Quando sua madre aveva incominciato a lavorare era riuscita a cavarsela bene, durante il giorno, e Hugh aveva finito la scuola senza problemi. Era la notte, l’oscurità, che lei non riusciva ancora ad affrontare: restare sola al buio. Finché sapeva che c’era lui, tutto andava bene. Su chi altro poteva contare?
E che altro aveva, lui, tranne la fidatezza? Tutto ciò che poteva aver creduto di essere o di valere, suo padre l’aveva svalutato andandosene. Nessuno abbandona le cose necessarie, o le cose preziose. Ma sebbene Hugh comprendesse abbastanza bene ciò che aveva provato Cheryl, la sensazione d’essere una merda, di doversi togliere di mezzo, non avrebbe fatto nulla, diversamente da Cheryl, perché sotto un certo punto di vista lui era prezioso, utile, persino necessario: poteva essere lì quando sua madre aveva bisogno di aver vicino qualcuno. Poteva prendere il posto di suo padre. In un certo senso.
Quando si era dedicato all’atletica, in primavera, durante la decima classe, s’era fratturato la caviglia saltando con l’asta, il primo giorno. Nello sport non era mai riuscito. Era diventato grande e grosso, ma pesante, con i muscoli molli e la pelle molle.
— Ehi, mi comprerò una di quelle tute rosse così carine e comincerò anch’io a correre su e giù per la strada — disse Donna. — Dov’è finita la tua gomma di scorta, Buck? — Lui abbassò gli occhi sul proprio ventre, vergognandosi, ma vide che forse andava un po’ meglio del solito. Non c’era da meravigliarsene, perché ogni mattina, prima di andare al lavoro, si faceva una lunga, svelta camminata, più qualcosa come dieci o dodici ore di marcia e di nuoto, senza mangiare molto. Portare viveri a sufficienza nella terra crepuscolare era un problema che lui risolveva soprattutto sopportando la fame.
Le prime esplorazioni verso monte, lungo il ruscello, erano state incerte e brevi. Hugh aveva paura di smarrirsi. Acquistò una bussola, e poi scoprì che non poteva servirsene. L’ago tremolava e deviava a ogni passo, e sebbene quasi sempre sembrasse indicare che il nord era oltre il ruscello (se il nord era l’estremità azzurra dell’ago), lui avrebbe avuto bisogno di qualcosa di più preciso, per ritornare alla radura della soglia, se si fosse addentrato tra le colline. Non c’erano sole e stelle che lo aiutassero a orientarsi. Che cosa significava «nord», lì? Gli alberi crescevano così vicini che era possibile camminare in linea retta per un lungo tratto, e Hugh non trovava mai una visuale spaziosa, nessuna possibilità di farsi un’idea dell’aspetto del territorio. Perciò esplorava i sentieri e i macchioni, le depressioni, le radure, le vallette laterali, le fonti sui fianchi dei colli, i meandri della foresta, su entrambe le sponde del ruscello, salendo dal luogo dove crescevano i salici. Imparava a conoscere quella terra selvaggia. Aveva molto da imparare. Non sapeva nulla delle zone selvagge, della vita nei boschi, delle piante. Gli alberi con le pigne erano pini. Gli alberi con i rami esili e splendenti erano salici. Hugh conosceva le quercie (c’era stata una quercia enorme nel campo giochi d’una delle scuole medie-superiori che aveva frequentato) ma nessuno degli alberi in quella foresta le somigliava. Comprò un libro sugli alberi più comuni e riuscì a identificarne parecchi: frassino, acero, ontano, abete. Tutto ciò che vedeva, tutto ciò che gli capitava sottomano lo interessava e lo teneva occupato, lì. E inoltre, pensava a ciò che non conosceva e che non aveva visto. Fin dove si estendeva il territorio selvaggio, la foresta? Aveva una fine? Ormai aveva percorso parecchie miglia lungo il ruscello e non c’erano cambiamenti, non c’era la minima traccia, il minimo segno della presenza umana. Persino gli uccelli e i mammiferi erano invisibili; Hugh seguiva le piste indistinte aperte dai cervi, ma non ne vedeva mai uno, a volte trovava un vecchio nido d’uccelli caduto al suolo, ma nella stagione immutabile e nel clima senza cambiamenti, non udiva mai il grido di un animale o il canto di un uccello.
Il ruscello, suo compagno e sua guida: che poteva pensarne? Doveva gettarsi in un fiume o diventare un fiume, più a valle, e grande o piccolo che fosse doveva finire per raggiungere il mare.
Hugh trattenne il respiro. Fissò stordito il suo fuoco, con la mente pervasa da quel pensiero: il mare che si estendeva oltre le coste della sera. L’oscurità verso la quale correva quell’acqua viva. Frangenti bianchi nell’ultimo crepuscolo, e al di là di quelli, gli abissi, la notte. La notte, e tutte le stelle.
Quella visione era così immensa e tenebrosa, il pensiero delle stelle era così terribile che quando lo abbandonò e Hugh tornò a guardare le solite rocce, le barene di sabbia, gli alberi, i rami, gli intrichi di foglie del luogo dov’era accampato, tutto gli parve piccolo e fragile, come un ninnolo, e il cielo piatto e chiaro era stranissimo.
Spesso, mentalmente, chiamava quel luogo «la terra della sera», a causa del crepuscolo eterno; ma ora pensava che quel nome fosse inesatto. La sera è il tempo del mutamento, la soglia della notte.
Il vento dolce che spirava lungo la valle del ruscello smosse la superficie del minuscolo lago. La visione lo sfiorò di nuovo: l’ampio gradino semibuio, la terra che era una soglia, e quel ruscello argenteo che l’attraversava e discendeva nella tenebra da chissà quali altezze, da quali monti orientali di un giorno inimmaginabile.
Hugh sedette di nuovo, frastornato, nel crepuscolo, certo di aver compreso per un momento perché considerava sacra quell’acqua.
— Dovrei proseguire — disse sottovoce. Ogni tanto parlava da solo, a mezza voce, una parola o una frase soltanto ad ogni visita.
Aveva incominciato a radersi, e continuò a farlo. Quel che lì sembrava durare un giorno e una notte poteva essere meno di un’ora nel mondo della luce diurna; ma la sua barba seguiva il suo tempo, non quello dell’orologio. Gli avrebbe semplificato la vita, lasciarla crescere (anche se a diciotto anni se ne era preoccupato, perché era folta, vigorosa, di colore bronzeo, e sua madre diceva continuamente che doveva radersi) ma i dipendenti di Sam’s Thrift-E-Mart non erano autorizzati a portare la barba. Aveva già dovuto discutere abbastanza per poter tenere i capelli come piaceva a lui, lunghi fino al colletto. Perciò l’ultimo rito nel luogo dei salici, prima di riporre la sua roba e di nasconderla, era radersi. Qualche volta scaldava l’acqua, ma se il fuoco s’era spento usava l’acqua fredda, stringeva i denti e si radeva; anche allora il contatto dell’acqua era gentile.
Sabato sera, disse a sua madre che sarebbe rimasto assente tutta la mattinata di domenica, per fare una lunga passeggiata «in campagna». Lei si lamentò ancora del chiasso che lui faceva quando si alzava presto, ma non mostrò altro interesse. Hugh uscì alle cinque del mattino, tenendo sotto il braccio un pacco di costosi viveri liofilizzati e congelati da trasferire nello zaino. Aveva intenzione di restare un po’ nella terra crepuscolare, di lasciare le zone che conosceva, di andare più oltre.