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C’erano candele accese alle finestre della locanda, come se la stessero aspettando. Per la via non c’era nessuno. Doveva essere tardi, almeno l’ora di cena. Al pensiero della cena, minestra, pane, stufato, zuppa di cereali, qualunque cosa di commestibile, Irene si sentì girare la testa; e quando Sofir le aprì la porta della locanda e lei trovò il tepore e la luce e il profumo dei cibi e il suono della voce profonda, le fu difficile continuare a reggersi in piedi. — Oh, Sofir — disse, — ho tanta fame!

Nel sentirla parlare arrivò Palizot, e sebbene non fosse una donna molto prodiga di gesti, baciò Irene e la tenne abbracciata per un momento.

— Avevamo paura per te — disse Sofir. La guidò a sedersi accanto al fuoco. Era veramente tardi; i soliti frequentatori della locanda erano tornati tutti a casa, il fuoco era basso. Sofír e Palizot cominciarono a trafficare per prepararle l’acqua calda per lavarsi, e qualcosa da mangiare, continuando a parlare. — E sai chi è venuto? — disse Palizot, e Irene l’interrogò: — Chi è venuto?

I due volti conosciuti e amati si girarono verso di lei nella luce giubilante delle fiamme; Palizot guardò Sofir sorridendo, indicandogli di parlare per entrambi. — È lui — disse Sofir. Ora è qui. Adesso le cose andranno meglio! — Lo disse con tanto calore e tanto piacere, con tanta certezza che Irene l’avrebbe condiviso, che lei non seppe che dire. — Ecco, è bollente — disse Palizot, presentandole un piatto; e nel vederlo, Irene rinunciò a preoccuparsi d’ogni altra cosa. Mangiò, immersa nella beatitudine del cibo e del riposo e della luce del fuoco e dell’amicizia; e poi Sofir le preparò la sua stanza, la camera affacciata sullo strapiombo scuro e la distesa delle foreste fino alla catena orientale.

Sofir era fuori, e Palizot era occupata, quindi Irene fece colazione da sola. Non era una colazione molto abbondante: un po’ di latte magro, un barattolo di formaggio e una pagnotta così dura e piccola, in confronto ai rotondi splendori bruniti che Sofir aveva tolto dal forno in altri tempi, che lei quasi non aveva il cuore di tagliare una fetta da quella povera cosa raggrinzita. Evidentemente, i mercanti della Città del Re non avevano più portato grano lì sulla montagna.

Al risveglio, aveva pensato che quando Sofir e Palizot, la sera prima, avevano detto «lui», «è venuto», si riferissero al Re. Poi, un po’ più sveglia, aveva pensato che non intendessero proprio il Re, ma un suo messaggero, qualcuno che era stato inviato con il potere di aprire le strade. Quando s’era destata completamente, aveva compreso che non era a questo che avevano alluso.

— Andrai alla casa del Padrone — disse Palizot, entrando in cucina con una bracciata d’indumenti appena tolti dalla corda del bucato. — Ho dato una rinfrescata al tuo abito rosso: si riempie di grinze, a stare nella cassapanca. Hai un paio di calze pulite? Guarda, queste ti piacciono?

— Immagino che lui sia là — disse Irene. Poiché «lui» non stava alla locanda, doveva essere stato invitato (come a lei non era mai accaduto) a installarsi nella casa del Padrone. La sua sofferenza, acuta anche se la causa era meschina, e la sua decisione di non tradirla, la preoccuparono tanto che per un minuto Irene non assimilò la risposta di Palizot: — Lui? Oh, no, è al maniero. Ma il Padrone ci ha chiesto, molto tempo fa, di mandarti a parlargli al più presto, appena fossi arrivata.

Questo era un balsamo. «Lui» poteva starsene al maniero quanto voleva.

— Sono bellissime — disse, ammirando le calze a righe finissime che Palizot le mostrava sul mucchio d’indumenti. — Le hai fatte tu?

— Con la lana ancora buona di quattro vecchie paia che ho disfatto — disse Palizot, con la soddisfazione dell’abile artigiana. — Mettile oggi, levadja. Sono per te.

Con le belle calze e l’abito rosso, Irene uscì nel crepuscolo della via, e salì i gradini singultanti fino alla casa del Padrone. Le oche nel recinto presso il muro meridionale, grandi e grosse, con i colli e i corpi bianchi vaghi e quasi luminosi, si agitarono e soffiarono; una batté le ali per un istante. Irene aveva sempre avuto un po’ paura delle oche. Bussò alla porta dai dodici pannelli e Fimol, calma come sempre, la fece entrare e la condusse attraverso la sala, tra lo sguardo lugubre dell’antenata e la smorfia dell’avo con il braccio storpio, fino alla soglia dell’ufficio del Padrone. — È arrivata Irena — annunciò Fimol con quella sua voce chiara e sommessa. Lui voltò le spalle allo scrittoio, tendendo le mani con gioia evidente: — Irena, Irenadja! Benvenuta! Quanto ci sei mancata!

Anche tu mi sei mancato, avrebbe voluto dire Irene; ma non poteva. La sua lingua non le obbediva mai, in presenza del Padrone. Obbediva a lui.

— Vieni, siediti — disse lui. Il sorriso lo faceva sembrare giovane. La voce era gentile. — Dimmi, com’è stato il tuo viaggio? La via era sgombra? Ti è stato faticoso? — Lo sguardo degli occhi scuri era posato su di lei. — Temevo che non avresti potuto venire — disse, parlando a voce più bassa, in fretta, e distolse lo sguardo.

— La porta era chiusa… fino a ieri sera. Volevo… ho cercato di venire!

Lui annuì, grave e gentile.

Irene cercò le parole adatte. — Non ho visto nulla, quando la strada si è aperta… nulla era diverso. Ma ho sentito… C’è stato un rumore, forse non l’ho udito veramente. C’era qualcosa che so di non avere veduto…

Mentre parlava, adesso, in quella stanza tranquilla, il terrore che si era vietata di riconoscere ieri, mentre traversava le foreste sul fianco della montagna, pervase il suo corpo in una lunga, fredda ondata: si rattrappì e rabbrividì, sulla sedia. La sua voce divenne esile e secca. — Prima non avevo mai avuto paura nella foresta!

Scrutò il volto olivastro del Padrone, cercando la sicurezza della sua forza. Per un po’ lui non disse nulla; e poi, finalmente, ancora con voce smorzata: — Eppure sei venuta.

— Qualcun altro… l’ha detto Sofir… è venuto qualcun altro, un uomo…

Il Padrone annuì. Le nascondeva qualcosa, o era oppresso da un’emozione intensa. Finalmente pronunciò una parola o un nome che Irene non conosceva, hiuradja, e incontrò di nuovo il suo sguardo, intenso, interrogativo.

— È venuto dal nord… dalla Città? — chiese Irene, sebbene conoscesse già la risposta.

— Dal sud. Come te. Lungo la strada del sud. Come venisti tu la prima volta, senza conoscere questa terra e la lingua.

La curiosità, il desiderio di conoscere la piena crudezza della verità, erano più forti della delusione e del risentimento. — È… — Non conosceva la parola per «biondo», o «chiaro di carnagione»; lì erano tutti scuri di pelle e di capelli. — Ha i capelli color paglia, ed è grasso?

Il Padrone annuì, brevemente.

— Siamo stati convocati al maniero per incontrarci con lui — disse, e qualcosa nella sua voce allarmò Irene: una sfumatura d’ironia, di collera… risentimento? — Vieni.

— Adesso?

— Al più presto possibile, ha detto il Nobile Horn. — Di nuovo quella sfumatura di bruschezza, o di sarcasmo; ma il Padrone non scambiò con lei un’occhiata di complicità, e impenetrabile come sempre la condusse fuori dalla casa, attraverso la via, fino all’alto, delicato cancello spalancato del maniero. Non parlò mentre procedevano tra i prati e i boschetti. Sulla destra, salivano le pendici della montagna, ammantate di cupe foreste, che lasciavano intravvedere appena le oblique pareti rocciose della vetta lontana. Davanti a loro stava la grande casa, costruita di pietra lionata.

Un vecchio li fece entrare, li guidò attraverso stanze fredde e maestose, arredate con pochi mobili, e su per una scala, in una galleria dalle molte finestre. Le finestre erano rivolte a est, sul grande declivio che scendeva fino alla lontana catena orientale, nitida contro il cielo. Il fuoco divampava in un camino marmoreo in fondo alla galleria, e là stavano il Nobile Horn e sua figlia, insieme allo straniero.