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— Ho bisogno di mangiare qualcosa — disse lui.

Poiché erano giunti insieme fin lì, proseguirono insieme.

— Vieni tutte le settimane? — chiese Irene.

— Tutte le mattine.

Per un po’, lei continuò a pensare a quella risposta.

— Puoi sempre entrare? La porta c’è sempre?

Lui annuì.

Dopo un po’, Irene disse: — Io posso uscire sempre.

Uscirono dal bosco di Pincus. La luce sui pascoli abbandonati era così fulgida che li arrestò. Un banco di smog si estendeva traslucido sulla città, verso ovest. Il sole ardeva attraverso la foschia con una luminosità accecante, e tutta l’aria era velata dallo smog e bruciava di luce. Ogni filo d’erba gettava la sua ombra. Il frinire penetrante di una cicala crebbe e si spense e un uccello lanciò un secco richiamo, nel bosco dietro di loro. Avevano gli occhi che bruciavano, e c’era già sudore sui loro volti.

— Senti — disse lui. — Per il tuo cartello. Ti chiedo scusa. Ma non posso stare lontano.

— Sta bene. Lo so.

Irene incurvò le spalle e guardò, oltre i campi, la superstrada lontana. Il metallico filo mobile delle macchine rimandava a guizzi il bagliore del sole. — Non appartiene a me, quel posto. Spesso non riesco più neppure a entrare.

Si incamminarono attraverso i campi.

— Io vengo qui verso le cinque e mezzo del mattino, di solito — disse lui.

Lei tacque.

— Ma non posso arrivare alla città sulla montagna e ritornare prima che cominci il lavoro… — Lui stava pensando a voce alta, lentamente. — Il prossimo weekend. La festa del lavoro. Ho la domenica e il lunedì liberi. Allora potrò venire. Loro… Mi sembrava che mi chiedessero di ritornare.

— Infatti.

— Bene. Così potrei venire allora e restare a lungo. — Lui mormorò di nuovo nel silenzio, poi disse all’improvviso: — Quindi, se vuoi.

Dopo quindici o venti passi, lui riprese: — Tu mi hai aiutato a uscire.

Irene si schiarì la gola e disse: — D’accordo. Quando?

— Ti va bene alle sei del mattino? Domenica.

— Benissimo.

Quando arrivarono alla banchina, sotto la strada di ghiaia, lui svoltò verso destra.

— La mia macchina è parcheggiata da questa parte.

— Bene. Allora arrivederci.

— Ehi!

Lui continuò a camminare.

— Ehi, Hugh!

Lui si voltò.

— Vuoi un passaggio? Hai detto che sei in ritardo. Dove abiti, del resto?

— A Kensington Heights.

— Bene.

Mentre si avviavano verso la fabbrica di vernici, lei disse: — Deve essere una lunga camminata, da qui. Non hai la macchina?

— L’affitto di quello schifoso appartamento costa troppo — rispose lui con improvvisa, lucida violenza.

— Il mio patrigno potrebbe venderti una macchina per cinquanta dollari.

— Davvero?

— Funzionerebbe per una settimana intera.

Lui non afferrò lo scherzo. Era intontito dalla stanchezza. In macchina, sedette aggobbito accanto al posto di guida. Era più grande e grosso di chiunque altro avesse viaggiato in macchina con lei, e la riempiva. Aveva l’odore del sudore prosciugato, il sudore acre della paura. I peli sul dorso delle grosse mani bianche erano d’oro bronzeo. Le cosce avevano uno spessore enorme. Irene non gli disse niente, mentre guidava; parlò solo per chiedergli indicazioni. Lo fece scendere davanti alla palazzina esafamiliare che lui le indicò, e se ne andò, sollevata all’idea d’essersi liberata di quella mole, di quella presenza ingombrante. Non gli aveva detto dove abitava, sebbene fossero passati con la macchina davanti alla fattoria. Lei viveva lì? Al momento non viveva in nessun altro posto. Per quel che ne poteva sapere, Rick e Patsi avevano rifatto pace, a quest’ora, ma andassero al diavolo. A sua madre non sarebbe dispiaciuto riaverla a casa per un po’, e sarebbe andato tutto bene, se fosse riuscita a stare alla larga da Vic, in modo che non ci fossero guai. Avrebbe dormito con Treese, e questo avrebbe potuto scoraggiarlo. O forse no. Comunque, non sapeva dove andare, fino a quando non avesse trovato un posto tutto suo. Magari in centro. Sua madre aveva davvero bisogno di averla vicina, oppure era lei che si aggrappava a sua madre? Avrebbe dovuto provare. Se almeno ci fosse stato qualcuno disposto a dividere un appartamento in centro. A un semaforo, si voltò a prendere la sveglia che aveva lasciato sopra la sua roba, nello scatolone sul sedile posteriore. Erano le due e un quarto. Poteva andare a casa e scaricare la roba, lavarsi e mangiare qualcosa, e poi cominciare a cercarsi un appartamento. Forse ce ne sarebbe stato uno che lei poteva permettersi di pagare, tutta da sola. I giornali della domenica erano pieni di offerte d’appartamenti, e lei avrebbe avuto ancora il tempo di andare a vedere. Forse avrebbe trovato un posto dove vivere quel giorno stesso, e non avrebbe dovuto dormire alla fattoria, se avesse avuto fortuna.

5.

Era come se fosse stato cieco e lei fosse venuta a lui, e i suoi occhi si fossero rischiarati per vederla. Vedendo lei, vedeva il mondo per la prima volta; non vi è nessun altro modo di vedere. Ogni atto e ogni oggetto avevano un significato, ora, perché quando lei l’aveva toccato, quel tocco gli aveva insegnato il linguaggio della vita. Nulla era cambiato, ma adesso aveva senso. Mele, tre per ventinove, e il budino in scatola era in offerta speciale a ottantanove per la prima confezione da sei, benissimo, ma quelli erano i numeri e le parole, e adesso lui comprendeva le equazioni, la grammatica: la bellezza del mondo. Le facce, prima non le aveva mai viste, perché aveva avuto paura di guardare la bellezza del mondo. La gente stava in coda davanti alla sua cassa, irrequieta e docile, obbediente alla fame, alla propria fame, alla fame dei figli. Le creature mortali devono mangiare, e quindi erano lì, in fila, e spingevano i carrelli. Così sarebbero venuti per morire. Erano molto fragili. Erano stizzosi e odiosi quando erano stanchi e il loro denaro non poteva procurar loro quel che volevano, e neppure ciò di cui avevano bisogno; sentiva la loro collera, ma non lo faceva più infuriare e non lo spaventava, perché ora tutte le cose contenevano l’idea di lei e ne venivano trasfigurate. Il viso di un bimbetto portato oltre la cassa da una madre stanca, la dignità e la pazienza di quella faccetta e la pesante grazia inconsapevole del braccio materno, gli davano l’impulso di gridare, come se si fosse tagliato o scottato la mano. Le cose ferivano. Lui era stato insensibile. L’anestetico aveva esaurito l’effetto, lui era vivo, sentiva la sofferenza. Ma nella sofferenza, la ragione della sofferenza era la gioia. Sotto ogni parola che diceva o udiva, in tutto ciò che vedeva e faceva, c’era il nome di lei, e intorno al nome, come un’aureola, un’armatura di luce, la gioia incrollabile.

Guardava tutte le donne bionde che venivano nel supermercato. Nessuna aveva capelli come i suoi, morbidi e pallidi, finemente arricciati come un vello, ma lui le guardava con tenerezza e simpatia perché le assomigliavano almeno nel fatto di essere bionde. Ma non poteva esserci una donna come lei, lì. Nessuna donna, lì, poteva parlare la sua lingua. La sua voce era chiara e dolce. L’ultimo giorno, dei tre che aveva trascorso nella piccola città sulla montagna, lei aveva indossato un abito verde, morbido e aderente, che modellava il corpo snello e tornito. Aveva i polsi e il collo delicati e candidi. In lei, tutte le altre donne erano belle, ma non c’era nessuna come lei. Non era possibile, perché lei era sola, là nell’altra terra, dove l’anima diventava se stessa.

Nei libri, gli uomini dicevano che potevano morire per una donna così e così. Hugh aveva sempre pensato che fosse molto poetico ma che non avesse senso, che fosse soltanto un modo di dire. Adesso capiva che significava esattamente ciò che diceva. Sentì in sé il desiderio, la smania di dare tanto all’amata da non lasciare più nulla, dare tutto, tutto. Proteggerla e difenderla, servirla, morire per lei… il pensiero era insopportabilmente dolce; Hugh trattenne di nuovo il respiro come se un coltello l’avesse trafitto, quando gli venne quel pensiero.

— Non sarai mica diventato un seguace di quel Swami Maha-Jiji o come si chiama, vero, Buck?

Lui rise.

— Hai la stessa aria che hanno loro, quelli dell’Hare Krishna — disse Donna.