— La città sulla montagna ha un nome? — le chiese. Si sentiva finalmente sveglio, ma molto rilassato, mentre attaccava l’ultimo pezzo di pane e salame.
Lei pronunciò un paio di parole, o una parola molto lunga nella lingua di quella terra. — Significa soltanto Città della Montagna. È come la chiamo io, quando penso in inglese.
— Anch’io lo facevo, credo. Come… Una volta hai dato un nome a questo posto. Tutto quanto. — Hugh indicò con il panino tutti gli alberi, tutto il crepuscolo, i fiumi avanti e indietro.
— Lo chiamo il mio paese. — Gli occhi della ragazza lampeggiarono, diffidenti, con un’espressione di sfida.
— Ma non è nella loro lingua.
— No. — Dopo un po’ lei disse, controvoglia. — È tratto da una canzone.
— Che canzone?
— Una volta, all’assemblea della scuola, è venuto un cantante folk e l’ha cantata, e mi è rimasta impressa nella mente. Non ne capivo neppure la metà, è in scozzese o qualcosa del genere. — La voce della ragazza era quasi rabbiosa.
— Cantala — chiese sottovoce Hugh.
— Non ricordo metà delle parole — disse lei, e poi, distogliendo gli occhi e abbassando la testa, cantò:
La voce era come quella di una bambina, come la voce di un uccello, inattesa, chiara e dolce. La voce e la melodia nostalgica fecero rizzare i capelli in testa a Hugh, gli offuscarono gli occhi, lo pervasero di un tremito di terrore o di gioia. La ragazza aveva alzato il viso verso di lui, fissandolo con gli occhi divenuti scuri. Hugh si accorse che aveva teso la mano verso di lei per interrompere il canto, eppure non voleva che smettesse, non aveva mai sentito una canzone così dolce.
— Non era… non è giusto cantare qui — disse lei, sussurrando. Si guardò intorno, poi tornò a guardare lui. — Non l’avevo mai fatto. Non ci ho mai pensato. Ballavo. Ma non avevo mai cantato… sapevo…
— Va benissimo — disse Hugh, stordito. — Va benissimo così.
Erano entrambi immoti, e ascoltavano il fievole mormorio del ruscello e l’immenso silenzio della foresta, ascoltavano come se attendessero una risposta.
— Scusami, è stata una sciocchezza — bisbigliò lei alla fine.
— Tutto a posto. Forse dovremmo proseguire.
Lei annuì.
Hugh mangiò ancora un pomodoro mentre impacchettavano gli avanzi. Anche questa volta lei lo precedette: gli sembrava giusto, perché conosceva la strada molto meglio di lui. La seguì al sentiero assiale, che lei chiamava la strada del sud. Dietro di loro e davanti a loro, a sinistra e a destra, c’era la grande quiete, e la luce chiara e profonda della sera non cambiava mai.
Quando ebbero finalmente attraversato l’ultimo dei tre ruscelli ed ebbero incominciato la prima ripida ascesa, Hugh si accorse che continuava a guadagnare rispetto alla ragazza, invece di restare dietro di lei, circa alla stessa distanza. Lei aveva rallentato il passo, o adesso era più irregolare.
Sulla cresta di una collina, dalla quale si scorgevano, attraverso uno schermo di rade betulle pallide, la mole e la massa della montagna che torreggiava in alto e avanti, come una tenebra, lei si fermò. Raggiungendola con un paio di lunghi passi, Hugh disse: — Vorrei riprendere fiato — perché era stata una lunga, ripida salita, e pensava che lei fosse stanca e non volesse ammetterlo.
La ragazza girò verso di lui il volto scavato come un teschio.
— Non lo senti? — Hugh riusciva appena a sentire la voce.
— Che cosa?
Il cuore gli era sobbalzato nel petto, e batteva inquieto. Lei scosse la testa. Fece un piccolo gesto frettoloso in direzione della muraglia scura della montagna.
— C’è qualcosa davanti a noi…?
— Sì — disse lei, inspirando l’aria.
— Ci blocca la strada?
— Non so. — Le battevano i denti, mentre parlava. Era rattrappita, aggobbita come una vecchia.
Hugh disse, a voce alta: — Senti, io voglio arrivare alla città. — Non era irato con la ragazza, ma con la sua paura. — Lascia che vada avanti prima io.
— Non possiamo andare avanti.
— Io devo andare avanti.
Lei scosse la testa, disperata.
Deciso a resistere a quel panico irragionevole, Hugh le posò gentilmente la mano sul braccio e cominciò a dire: — Possiamo farcela… — Ma lei si sottrasse al contatto come se la sua mano fosse un ferro rovente, e il viso contratto si oscurò per la collera. Disse, con forza: — Non toccarmi mai!
— D’accordo — disse lui, con una fulminea reazione di disprezzo. — Non ti toccherò. Calmati. Dobbiamo andare avanti. Ci stanno aspettando. Avevo detto che sarei venuto. Vieni!
Si avviò per primo. Per salvare il proprio orgoglio non si voltò a vedere se lo seguiva; ma continuò ad ascoltare, giù per la lunga discesa, il suono lieve dei passi di lei. Quando il sentiero riprese a salire, si girò. Sapeva cosa significava aver paura, lì. La ragazza gli stava piuttosto vicino, e non indugiava, non si lasciava distanziare. Il suo volto era come un pugno chiuso sotto il nero groviglio dei capelli. Tra le cime degli alberi il vento produceva un suono come il mare sentito a grande distanza, il mare che si stendeva lontano, lontano, lontano a ovest, sulla sinistra, nella direzione dell’oscurità. Tra la notte e il giorno proseguirono sul lungo sentiero. Continuava e continuava, e se lei non lo avesse seguito, Hugh si sarebbe fermato. Il pendio della montagna non aveva fine, e lui cominciava a sentirsi stanco. Non si era mai sentito così stanco in vita sua, era una debolezza in tutto il corpo, un languore che forse sarebbe stato piacevole se soltanto lui avesse potuto sedere, sdraiarsi, fermarsi a riposare. Era faticoso proseguire, e sarebbe stato molto più facile procedere in discesa.
— Hugh!
Lui si voltò, e si guardò intorno frastornato per un po’, prima di vederla. Non era dietro di lui, ma più in alto, sul pendio, tra gli abeti scuri. Era un luogo buio, e il cielo era chiuso dai rami che s’incontravano e dalle balze rocciose.
— Da questa parte — mormorò lei.
Hugh si accorse che lei era sul sentiero. Lui era sceso obliquamente tra gli alberi, giù verso valle.
I pochi passi per ritornare sul sentiero furono una fatica.
— Comincio a stancarmi — disse, con voce tremante.
— Lo so — mormorò lei. Sembrava che avesse pianto; aveva il volto gonfio e chiazzato. — Resta sul sentiero.
— D’accordo. Vieni.
Al termine del pendio, sotto gli abeti, il percorso diventava pianeggiante, ma non più facile, perché crescevano la stanchezza, la pesantezza, il desiderio di sdraiarsi. Lei gli stava accanto, adesso; c’era spazio per camminare affiancati. Quando era diventato così largo, il sentiero, quando era diventato una strada? Adesso lei lo forzava ad accelerare l’andatura. Hugh cercava di non farsi distanziare. Non era giusto. Non le aveva messo fretta, quando lei non ce l’aveva fatta.
— Ecco…
Il baluginio nell’ampia, fredda sera: luce dei fuochi, luce delle lampade. La paura e la stanchezza erano soltanto ombre gettate da quel bagliore giallo, ombre che cadevano dietro di loro sulla strada.
Entrarono nella città. Poi, tra le prime case, si fermarono.
La ragazza gli stava a fianco, con il viso stanco e gonfio inclinato all’indietro in un atteggiamento di sfida. — Vado alla locanda — disse.
Hugh cercò di scrollarsi di dosso l’intontimento. Adesso che era lì, dove tendevano tutti i suoi desideri, si sentiva pesante, goffo, fuori posto. Non aveva il coraggio di andarsi a presentare alla grande casa, e non sapeva dove altro andare. — Credo che ci verrò anch’io — disse.
— Ti stanno aspettando al maniero.
— Al che cosa?
— Il maniero? Non è così che chiamano la residenza di un nobile? È la casa del Nobile Horn. Dove sei stato l’altra volta.