Il tono era brusco, irridente. Perché se la prendeva con lui, dopo che avevano percorso insieme quella strada dura e difficile? Non poteva fidarsi di lei. Le piaceva vedergli fare la figura dello stupido. Bene, quello era un desiderio facilmente realizzabile.
— Arrivederci — disse Hugh, e svoltò verso la prima via laterale che saliva la collina.
— Una strada più avanti. Quella a gradini — disse la ragazza, e proseguì verso la mole della locanda, con i tetti aguzzi e le finestre sporgenti, simile a un galeone.
Lui la seguì, passò oltre la locanda, svoltò a sinistra, su per la scala a gradini. L’aria odorava di fumo di legna, ed era come aspirare l’autunno tutto di un fiato; una voce infantile chiamava, lontano, dove la piccola città, più in basso, si perdeva nei pascoli pallidi. C’era uno strano rumore, nel cortile dalla bassa recinzione, accanto all’ultima casa della via: oche che soffiavano, notò Hugh quando vide i grossi uccelli bianchi che l’adocchiavano. C’erano uccelli e bestie, lì nella città, c’erano voci, ma nessuna voce cantava. Le oche soffiavano e si agitavano. Sebbene lui fosse arrivato dove aveva desiderato venire, era stanco e infreddolito, un freddo che non era causato dal vento o dall’aria, ma che veniva da dentro di lui, dal midollo delle ossa e dalle viscere, un freddo cavernoso di stanchezza.
Passò sotto la cancellata di ferro e in mezzo ai prati e giunse alla grande casa, con i tetti scuri sotto il cielo serotino: due finestre gettavano una luce tenue sul vialetto. Alzò il picchiotto modellato come una testa d’ariete e bussò.
Il vecchio servitore aprì la porta, e Hugh sentì il proprio nome pronunciato come lo dicevano lì, in modo strano, tutto insieme come un’unica parola, proferito con energia e in tono di benvenuto. Il vecchio si affrettò a precederlo per le gallerie buie, e aprendo la porta di una stanza dalle pareti cremisi e illuminata dalla luce del fuoco, lo annunciò gioiosamente con quello stesso nome, splendido e parzialmente familiare: — Hiuradjas!
Allia era lì, nella stanza risplendente. Si alzò, lasciando cadere il lavoro che stava facendo, e gli andò incontro, tendendogli le mani. I capelli chiari erano sollevati dal movimento del suo corpo. Non esiste un modo per attendersi la bellezza o per meritarla. Hugh le prese le mani. Avrebbe voluto cadere ai suoi piedi. Non conosceva la lingua, ma il tono diceva: — Sei il benvenuto, il benvenuto! Finalmente sei tornato!
Lui disse: — Allia — e lei sorrise di nuovo.
Gli chiese qualcosa. L’espressione degli occhi azzurri e il tono della voce erano così gentili e preoccupati che Hugh disse: — È stato faticoso, venire, è stato spaventoso… sono stanco… — Ma dal gesto di lei comprese che gli stava semplicemente chiedendo se voleva sedersi, e sedette, grato. Poi si alzò di nuovo perché era entrato il Nobile Horn, il quale lo accolse con cordialità e con qualcosa d’altro che in un primo momento lui non riconobbe: rispetto. Quell’uomo anziano, chiamato «Nobile», chiaramente abituato all’autorità personale, mostrava verso di lui non deferenza, non semplice cortesia, ma il riguardo dell’eguaglianza: come se appartenessero alla stessa famiglia. Come se Horn parlasse a una qualità che era in lui e che lui stesso ignorava, ma che il vecchio conosceva e onorava.
L’amichevolezza di Allia, sebbene timida e manierata, era molto meno sobria di quella del padre. L’unica conversazione che potevano sostenere era una sorta di lezione di lingua. Gaiamente, lei indicava e agitava la mano e faceva smorfie, e rideva dei propri equivoci e degli errori di lui. Tuttavia, anche in lei Hugh sentiva un atteggiamento nei suoi confronti che non voleva chiamare rispetto ma che non osava chiamare amore; al massimo, poteva ammettere di fronte a se stesso che sembrava provare per lui simpatia, ammirazione… perché? Che cosa aveva fatto? Niente? Come poteva apprezzarlo per ciò che era? Impossibile. Eppure nello sguardo dolce e franco e nella voce, e persino nelle risate con cui accoglieva i suoi errori c’era la sfumatura grave dell’ammirazione. Un’ammirazione come quella che provava per lei, ma a lei era dovuta. Tutto ciò che Allia era e faceva era ammirevole, bellissimo. Se lui doveva essere ammirato, poteva esserlo solo per un cortese anticipo. Non gli era dovuto nulla. Ma per meritare, per guadagnare ciò che lei gli dava immeritatamente, per essere l’uomo che lei credeva, avrebbe fatto qualunque cosa.
Cenarono in una lunga sala, a lume di candela. Hugh era così stanco che il pasto passò in una confusione di luce e di calore. Quando fu solo nella sua camera si sentì ubriaco di stanchezza. La stanza, dove aveva dormito le tre notti del suo primo soggiorno, lo sorprese con la profonda familiarità: le pareti dipinte d’azzurro sbiadito e d’oro quasi consumato, il letto di quercia, gli alari dai pomelli d’ottone, erano piacevoli da ritrovare come se li avesse conosciuti per tutta la vita. Sebbene non le somigliasse affatto, la stanza gli ricordava una camera che gli era rimasta impressa per molti anni, una mansarda nella prima casa in cui era vissuto, la casa della madre di suo padre. Il suo letto, allora, era accanto alla finestra affacciata sui campi verdescuri e sulle colline azzurre della Georgia. Quello era un altro paese, tanto tempo fa. Qui, le alte finestre erano ornate di tende. Un fuocherello ardeva, quasi silenzioso, nel piccolo camino. Il letto era alto e duro, le lenzuola fredde, pesanti, seriche. In quel letto, mentre l’occhio dorato del fuoco brillava tra le ciglia socchiuse, non vi erano sogni. C’era soltanto il sonno, l’ampia, fluttuante oscurità del sonno. E mentre gli si abbandonava, tutti i pensieri, le distinzioni della luce, gli impulsi della volontà scivolarono lontano da lui; solo per il momento udì, nell’oscurità, una voce esile come quella di un uccello,
Hugh si girò e affondò la testa fra le braccia, scacciando la canzone, giù, alla sorgente. Era fuori posto, lì, dove nessun fiore sbocciava e dove nessuna foglia cadeva, e nessuna voce cantava. Ma lì c’era Allia, e gli tendeva le mani mentre lui sprofondava lieto nella tenebra.
6.
Perché sono tornata?… La domanda si ripresentava con insistenza irritante, come il piagnucolio di un bimbo. Lei si ribellò, esasperata: Perché dovevo! E adesso doveva fare ciò che doveva essere fatto. Andò alla casa alla sommità della strada a gradini, e Fimol la fece entrare, e nella bella sala dai due camini lei attese, così tesa e apprensiva che tutto ciò che vedeva e udiva era stranamente vivido, sconnesso, e aveva una insignificanza primitiva e luminosa.
Il Padrone entrò nella stanza. Non come l’aveva visto lei l’ultima volta, aggobbito per il terrore, piagnucolante, accecato. No, niente di simile. Eretto, attento, calmo, e cupo: il Padrone. — Benvenuta, Irena — disse, e come sempre lei si sentì la lingua legata, si sentì incapace di resistere al suo ascendente, e ne provò sollievo. Lui è veramente così, posso dimenticare quell’altra faccia. È il mio Padrone!
Ma al di là di quell’impacciata, appassionata sottomissione, quasi attraverso una lastra di vetro, un’anima fredda osservava lui e se stessa. Quell’anima non serviva; e neppure giudicava. Osservava. Osservava lei scegliere il rigido scranno di broccato per sedersi, e chiedersi perché lo sceglieva. Osservava lui che camminava avanti e indietro nella sala, e vedeva che era lieto di voltarle le spalle.
I camini non erano accesi. L’aria della lunga sala era tranquilla, come all’interno d’una sottile conchiglia marina.
— Presto dovremo incominciare a macellare le pecore — disse il Padrone. — Non è più rimasto foraggio in tutti i prati bassi orientali. — I prati bassi erano i pascoli vicini alla città, usati normalmente solo nella stagione in cui nascevano gli agnelli. — Ma dato che i mercanti di sale non sono venuti, non potremo conservare molta carne. Un grande banchetto; il banchetto della paura…
Gli abitanti di Tembreabrezi non tenevano i greggi per la carne, bensì per la lana; la loro ricchezza era la splendida lana che tingevano e filavano e tessevano, e cedevano in cambio dei prodotti della pianura. — Il manto del Re l’abbiamo tessuto noi — li aveva sentiti dire Irene.