— Tu non sei responsabile di quello che faccio — disse lei, girando la testa.
— Allora tu non hai la responsabilità d’impedirmi di perdere la strada.
— Ma dobbiamo arrivare là — disse lei.
Continuarono a salire. Il sentiero svoltava bruscamente, avanti e indietro. Dovettero inerpicarsi per un tratto, dove le rocce erano franate. Hugh guardò la mano della ragazza, mentre si aggrappava a un macigno tagliente. Era una mano piccola, esile e scura, e le mezzelune delle unghie erano bianche.
— Ascoltami — le disse. — Voglio… Non ho mai capito il tuo nome.
Lei si voltò a guardarlo. — Irena — disse chiaramente, e lo scandì lettera per lettera.
Hugh lo ripeté, e ancora una volta l’ampio, dolce, segreto sorriso passò sul volto di lei mentre lo guardava dall’alto, tenendosi salda tra le aspre rovine della terra e della roccia. Poi prosegui, leggera.
In quel tratto, la spada lo intralciava continuamente, il pesante fodero di cuoio lo faceva incespicare o gli batteva con violenza sulla coscia o gli si piantava sotto il braccio come una gruccia; alla fine riuscì a fissarlo nell’angolo giusto, rispetto alla cintura, ma per farlo rimase molto indietro rispetto alla ragazza. Mentre proseguiva, sentì un suono d’acqua corrente. Voltò a uno degli innumerevoli, bruschi gomiti del sentiero e vide un ruscelletto che sgusciava trasparente dalla fonte tra le rocce, e piombava in un bacino d’erbe verdi e di felci. Irena gli stava inginocchiata accanto, e attendeva che lui la raggiungesse: aveva il viso e le mani bagnate e infangate. Anche Hugh s’inginocchiò e bevve, affondando le mani nel minuscolo acquitrino accanto al rivoletto. L’acqua sapeva di ferro o di ottone, come il sangue, ma era freddissima.
Il percorso era sempre stretto, sempre ripido, e seguiva le fessure nella parete di pietra. Dove c’era polvere, al suolo, era segnato da tracce di fango secco, con le strette orme degli zoccoli delle ultime pecore che erano state condotte giù dalla montagna. La fascia del cielo, lassù, era alta e remota. Sul sentiero non calava molta luce, tranne dove seguiva per un tratto il fianco di un canalone che si allargava. Quando le pareti si restrinsero nuovamente, Hugh sentì che stava conducendo nelle viscere della montagna. I suoi stivali scivolavano sulla pietra; il suo passo era incerto. Invidiava la ragazza, che saliva come un’ombra la ripida via tortuosa davanti a lui.
Lei si fermò ai piedi di un lungo tratto diritto. Hugh la raggiunse e chiese, mormorando a causa del profondo silenzio: — Tutto bene?
— Sono soltanto sfiatata. — Come lui, stava ansando.
— Continua ancora per molto?
Le rocce che sovrastavano il sentiero erano modellate stranamente, bulbose, come se l’acqua le avesse smussate molto tempo prima. Sembravano animali parzialmente formati, tumori, enormi intestini di pietra.
— Non so. Con le pecore ci voleva tutto il giorno.
Gli occhi di lei, in quella penombra appesantita dalle rocce, sembravano scuri e spaventati.
— Vai più piano — disse lui. — Non c’è fretta.
— Voglio uscire di qui.
Attorcendosi e affondando nelle gole, il sentiero saliva implacabile. Si fermarono ancora due volte per riprendere respiro. L’ultimo tratto era così ripido che s’inerpicarono come se fosse una scala a pioli, usando le mani. Quando, all’improvviso, il suolo divenne pianeggiante e non vi furono più pareti di roccia, Hugh era carponi. Si alzò e poi, con la testa che gli girava, ricadde in ginocchio. Il sentiero sfociava al limitare di un secondo prato alpino, stretto, un gradino verde. Trecento, seicento metri più in basso, il grande pascolo dal quale erano saliti si estendeva velato dalla distanza, verde come muschio. Hugh non sapeva misurare l’altezza e le miglia; ma erano molto in alto, perché l’inclinazione enorme del fianco della montagna adesso era percettibile, sopra quel prato e più sotto, come la direzione principale di quella parte della terra, assoluta come l’orizzonte, il quale a sua volta era così alto e lontano da perdersi nello spessore dell’atmosfera crepuscolare. Sopra di loro e a nord e a est della montagna s’inarcava il cielo calmo, libero.
Irena s’era seduta sull’erba, più vicina al ciglio di quanto piacesse a lui. Guardava verso nord, al disopra delle terre più basse. Hugh guardò verso est: giù per i pendii, dapprima, chiedendosi se da lì si potevano scorgere i bagliori delle luci della Città della Montagna; ma ancora una volta, guardare in basso gli diede le vertigini. Guardò davanti a sé, attraverso l’abisso d’aria, in direzione delle montagne orientali. Dietro quei profili indistinti che sembravano tracciati con una matita grigia sulla carta grigia, c’era un accenno di colore, un ravvivarsi? Guardò a lungo, ma non poté esserne certo. Quando seguì lo sguardo di Irena verso il nord, non scorse luci di cittadine, né il fioco chiarore ammassato che avrebbe potuto essere la lontana Città del Re. Era tutto grigiazzurro, indistinto, silenzioso, immenso.
Finalmente lei si alzò, si scostò dal ciglio dell’abisso, camminando cautamente. — Questo è il Gradino Alto — disse, quasi mormorando. — Ho le gambe molli per la salita.
Hugh si sentiva girare la testa nel vederla tra sé e quell’immensità d’aria vuota. Si alzò, e si girò verso il prato. Attraverso l’erba, che lassù era corta, e vivida, come quella d’un giardino, tra l’orlo del baratro e la muraglia della montagna che s’innalzava, c’era una sporgenza di roccia, una specie d’isola nell’erba. Si avviò da quella parte. Era una massa di grandi macigni grigi, coperti di licheni, screpolati, rassicuranti per la loro grandezza e la loro solidità in quello strano posto così in alto. Era piacevole mettersi la roccia alle spalle. Sedettero entrambi con la schiena contro il macigno più grande, alto cinque, sei metri.
— È stata una tappa lunga — disse Hugh. Irena si limitò ad annuire. Lui tirò fuori i viveri dallo zaino, e se li divisero in silenzio. Il profilo di lei era minuto e severo, come una moneta di bronzo, contro il cielo.
— Irena.
— Cosa?
— Se vuoi dormire, starò io di guardia.
— D’accordo — disse lei, e senza aggiungere altro si raggomitolò contro la roccia, con il rosso fardello arrotolato come cuscino.
Hugh mangiò un altro panino (duro, granuloso, a forma di nodo, dal sapore gradevole) e un pezzo di formaggio di capra: non gli piaceva, ma aveva abbastanza fame per mangiarlo. Dopo aver riflettuto, mangiò un altro panino, imbottito con un pezzo di carne affumicata, e poi rimise i viveri nello zaino. Avrebbe voluto mangiare ancora, ma così sarebbe bastato. Adesso si sentiva molto meglio. Era trascorso molto tempo e avevano fatto molta strada da quando avevano lasciato la cittadina, e lui era stanco, ma non esausto. Se fosse rimasto lì seduto, con la schiena comodamente appoggiata alla roccia, si sarebbe addormentato, come lei. Avrebbe dovuto montare di guardia. Si alzò e cominciò a camminare a passo tranquillo, avanti e indietro, accanto all’isola di roccia.
Nel chiarore della luce d’alta montagna, più una trasparenza che un crepuscolo, un’onnipresenza della luce senza sorgente, il colore dell’erba era intenso: scuro e chiaro come uno smeraldo. Le foreste che chiudevano alle due estremità il prato (vicino, a sud, lontano, a nord) apparivano ruvide e nere. Sopra le pareti a strapiombo che incombevano sul prato, il prossimo gradino di quella scala enorme, torreggiava lo stesso ruvido nereggiare degli alberi, ripido e remoto; più sopra, la roccia nuda, le vette. In quel mondo d’aria e di pietra e di foreste non c’era altro colore che quel gemmeo verde scuro. Neppure un fiore sbocciava nell’erba alpina. Nessun fiore poteva schiudersi sui prati quando nessuna stella si schiudeva nel cielo. Questo, a Hugh, appariva chiaro; poi concluse che la sua mente si stava offuscando. Per svegliarsi, cambiò il percorso, girando in parte intorno all’isola di roccia, non completamente. Non voleva perdere di vista la ragazza addormentata.
Intorno al lato a nord, verso le pareti di roccia, c’era un tratto spelato in mezzo all’erba. La seconda volta che arrivò a quell’estremità della sua ronda semicircolare, si avvicinò di più, per vedere perché lì il terreno era nudo. Non era terreno, era pietra, una distesa di roccia a forma di scudo, una scapola della montagna che spumava attraverso la pelle. La superficie lievemente incurvata era spezzata in molti punti: Hugh si avvicinò ancora di più per guardare. C’erano anelli di ferro inchiavardati alla pietra, quattro, e formavano un rettangolo lungo più di due metri. La ruggine aveva macchiato la pietra e il lichene, intorno ai fori dei cavicchi metallici. Lui salì sulla roccia piatta e tirò uno degli anelli, ma quello non cedette. Una cinghia di cuoio non conciato, annodata intorno all’anello e spezzata al nodo, s’era accartocciata intorno al metallo fino a sembrarne un’escrescenza. Era tutto orribile, i grossi anelli incrostati di ruggine fissati alla pietra, tra le alte pareti e l’abisso, un luogo orribile. La ragazza dormiva lì, oltre i macigni, dal lato scoperto, indifesa. Così non andava. Era sbagliato essere lì. Quello era il posto sbagliato. Hugh voltò le spalle alla pietra piatta e in quel momento udì il grido nella foresta.