Lui alzò gli occhi verso i pendii bui. — Sarà difficile mantenere una direzione qualunque, se lasciamo la pista.
— Il fiume scorre verso est. Credo. Possiamo seguirlo.
— D’accordo.
— È solo una mia impressione che sia l’est — disse lei, seccamente. — Non lo so.
— È impossibile saperlo. — Lui la giustificò, senza discutere. — Non arriverei mai da nessuna parte — disse, guardandola attraverso l’aria scura. — Non da solo.
— Allora avanti — disse lei. — Può darsi. Purché questo fiume scorra nella direzione giusta.
— Non è un fiume, è un ruscello — disse lui, amabilmente.
— Io li chiamo tutti fiumi. Vuoi riposare un po’?
— No. Il terreno è troppo umido. Andiamo avanti.
Era snervante lasciare di proposito il sentiero per scegliere l’assenza di ogni sentiero, come se conoscessero il percorso. Almeno, all’inizio non fu difficile procedere. Gli alberi, da questa parte della gola, erano quasi tutti vecchi, grossi abeti, senza molto sottobosco in mezzo, quando lasciarono il letto del ruscello. I pendii erano erti. Ben presto, Irena si augurò di poter sollevare un po’ la gamba destra. Ma avanzavano abbastanza svelti, e lì c’era più luce.
Il ruscello cominciò a scendere più ripido. Irena non cercò di tenersi vicino all’acqua, ma salì fino al dosso, dove era più facile camminare e la direzione era la stessa della corrente. Aveva sperato di poter vedere più avanti per un tratto, dall’alto del dosso, ma come sempre gli alberi erano troppo fitti. Era stata una sciocchezza, abbandonare il sentiero? Forse, ma non sarebbe tornata indietro. Potevano soltanto rischiare. Lei aveva fame. Sembrava troppo presto per fermarsi, fino a quando ripensò al luogo sotto la grotta, dove avevano dormito… ore prima, molto più indietro, sulla montagna. Si voltò e disse: — Vorrei fare una sosta — a Hugh che la seguiva pesantemente. Lui si fermò subito. Si guardò intorno e additò un tratto pianeggiante di terreno fra le radici di due grandi alberi fronzuti: e si avviarono da quella parte. Lui portava il mantello rosso, che di spalle gli dava l’aria di una vecchia, ma di fronte lo faceva apparire maestoso. Trovarono radici comode per sedersi, e Irena slegò e aprì l’involto dei viveri. — Penso che dovremmo tenerci leggeri, questa volta, e la prossima volta che ci fermeremo, mangeremo di più. Hai molta fame?
— Non ho fame.
— Mangia qualcosa, comunque.
Irena preparò porzioni che le sembravano vergognosamente scarse, ripose il resto e cominciò a mangiare. Credeva di masticare lentamente per far durare di più il cibo, ma finì subito, finì prima che Hugh fosse arrivato a metà. Lui non toccò neppure il pane. Irena lo guardò, a disagio. Era pallido, ma l’aria sciupata era dovuta soprattutto alla barba lunga. Non aveva un’espressione stravolta. Anzi, sembrava tranquillo e contento, mentre guardava fra gli alberi. Poi, sentendo evidentemente lo sguardo di lei, si voltò. — Tu lavori, o studi, o che altro? — le chiese.
In un primo momento la domanda le sembrò così pazzesca e insensata che lei non seppe rispondere, lì, perduta sulla montagna del drago. Poi l’impulso che aveva spinto Hugh si affermò anche in lei, e non vide più nulla di strano in ciò che le chiedeva. — Lavoro. Mott Zerming. Faccio le commissioni.
— Come?
— Le commissioni. Hanno una quantità di sussidiarie e di affiliate, in città, e una quantità di corrispondenza e di promemoria e di disegni e tutto il resto (si occupano anche d’ingegneria) e a loro conviene servirsi di gente che li porti ai vari uffici, piuttosto che usare la posta. È un’azienda molto grande. Ma è ancora su scala locale, e Mr. Zerming la dirige ancora personalmente. Preferisce servirsi di persone con macchina propria. Però ho tutta la benzina gratis.
— Pazzesco — disse lui, in tono d’approvazione. — Così te ne vai sempre in giro in macchina?
— In certi casi è più facile andare a piedi, agli uffici del centro. Oppure prendere l’autobus. Certi giorni guido dalla mattina alla sera. È abbastanza strano. A me piace, perché sono indipendente e lo faccio a modo mio. Detesto fare le cose quando è qualcun altro a dirmi come devo fare.
— È il guaio di tanti lavori.
— Il guaio di questo è che per la verità è un lavoro da ragazzini. Un po’ irreale… sai bene. In realtà non fai mai niente. Corri e corri e non approdi mai a nulla.
— Cosa ti piacerebbe fare?
— Non so. Questo non mi dispiace, sai, va benissimo. È un lavoro. Ma credo che quello che una persona fa veramente sia diverso. Dovrebbe essere diverso. Come una fattoria. O l’insegnamento. O occuparsi dei bambini. Ma non fa per me. Bisogna avere un po’ di terreno e un trattore. Oppure prendere un diploma d’insegnante o di puericultrice o qualcosa del genere.
— Potresti andare a una scuola serale — disse lui, pensosamente. — E lavorare di giorno. Almeno per cominciare. Se…
— Si direbbe che tu ci hai pensato molto. Oppure dovresti andare a un’università speciale?
— Per che cosa?
— Per diventare bibliotecario, hai detto.
Hugh la guardò di nuovo, uno sguardo lento. — Giusto — disse; e Irena comprese, con certezza indiscutibile che aveva riconosciuto qualcosa che era stato represso e disprezzato, aveva fatto qualcosa di assolutamente, definitivamente giusto. Non sapeva cosa fosse, ma l’effetto la rallegrò. — Pazzesco — disse. Tutti quei libri. Cosa te ne faresti, comunque?
— Non so — disse lui. — Leggerli?
Il sorriso di Hugh era bonario. Lei rise. I loro occhi s’incontrarono, deviarono. Rimasero per un po’ in silenzio.
— Se almeno fossi sicura che stiamo andando veramente verso est, sarebbe così bello!… Ti senti bene, adesso?
— Benone.
Lui parlava sempre quietamente, ma lei sentiva la risonanza della voce smorzata: forse era una bella voce, fatta per cantare.
— Mi fa un male d’inferno qui — commentò lui, con un certo stupore, tastandosi il fianco sinistro, con delicatezza.
— Fammi vedere. . — Non è niente.
— Beh, fammi vedere. Mi è sembrato che ti muovessi un po’ rigido, da quella parte.
Lui cercò di alzare la camicia, ma non riuscì a sollevare il braccio sinistro. Sbottonò la camicia. Era imbarazzato, e lei cercò di comportarsi con il distacco di un medico. All’altezza del gomito, al limite della cassa toracica, c’era una macchia neroverdastra, grande come il coperchio d’un barattolo di caffè. — Mio Dio, — disse lei.
— Che cos’è? — chiese lui, apprensivo; non poteva vederla bene.
— Un livido, credo. — Irena pensò all’impugnatura della spada che sporgeva dal ventre dell’essere bianco. Si rattrappì istintivamente, a quel pensiero. — Da quando il… da quando ti è caduto addosso. — Tutto intorno alla chiazza la pelle era giallastra, e c’erano altri lividi e striature più cupe che salivano verso lo sterno. — Non mi sorprende che ti faccia male — disse lei. Sentì il calore dell’ematoma sui polpastrelli, prima di toccarlo lievemente.
Lui le prese la mano. Irena pensò di avergli fatto male e alzò la testa per guardarlo. Non si mossero; lei gli stava inginocchiata accanto, lui sedeva con un ginocchio rialzato.
— Mi hai detto di non toccarti mai — disse Hugh, con voce rauca.
— Questo è stato prima.
La bocca di lui s’era ammorbidita e allentata, il volto era intento, profondamente serio, come lei l’aveva visto una volta soltanto. Aveva visto sulle facce di altri uomini la stessa maschera, che li rendeva tutti eguali, e aveva nascosto il suo volto. Adesso, senza paura, un po’ sgomenta ma incuriosita, lo scrutò, e gli toccò la bocca e l’incavo della tempia, accanto all’occhio, delicatamente come aveva toccato il livido nero, ansiosa di conoscere quella sofferenza e quel desiderio. Hugh la trasse a sé, ma goffamente e timidamente, fino a quando lei alzò entrambe le braccia, e si sentì diventare molle e guizzante come l’acqua. Poi lui la tenne e montò su di lei, sopraffacendola; eppure la forza di lei conteneva la forza di lui.
Quando entrò in lei, giunsero insieme al culmine, e poi giacquero insieme, fusi e mescolati, petto contro petto, il respiro frammisto, fino quando lui si erse di nuovo dentro di lei, e lei si chiuse su di lui, sospinti entrambi dal lungo palpito della gioia.