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Irene era convinta che il Padrone sapesse qualcosa dell’esistenza della porta. Forse sapeva anche molto di più: e sebbene lei non lo ammettesse chiaramente di fronte a se stessa, credeva che in effetti il Padrone sapesse molto più di lei, e che le avrebbe spiegato tutto, se glielo avesse chiesto. Ma non osava chiederglielo. Non era ancora il momento. Sapeva ancora così poco, del suo paese, conosceva solo la strada del sud, e la piccola città, gli abitanti della città e i loro commerci e i dissidi e gli scherzi e le arti e i pettegolezzi e le usanze, che non si stancava mai d’imparare, e la loro lingua, che parlava correntemente e che tuttavia talvolta non comprendeva affatto. Sempre, fuori dal centro benigno del focolare, si stendevano il crepuscolo e il silenzio, l’inspiegato, l’inesplorato. Lei era sempre stata contenta che fosse così. S’era augurata che lì non fosse cambiato nulla. Ma questa volta, fin dalla prima sera, al primo focolare, aveva sentito che il cerchio s’era spezzato. Non era più sicuro. Per quanto lei lo desiderasse, per quanto lo desiderassero gli altri, lei non era più una bambina.

Dopo colazione andò a far visita a Trijiat, e poi accompagnò Aduvan e il fratellino dal calzolaio, dall’altra parte della città, per lasciare da risuolare le scarpe più belle della loro madre. La bambina chiaccherò per tutta la strada, e il piccino trillava come un grillo. Avevano la testa piena di una storia di fantasmi o qualcosa del genere che qualcuno gli aveva raccontato, e continuavano a chiedere a Irene se non aveva avuto paura, quando era salita su per la montagna. Virti corse avanti, si nascose dietro un portico, balzò fuori verso di lei, lanciando suoni terrificanti come un grillo isterico, e lei lanciò doverose grida di sgomento e di orrore. — Devi cadere! — disse Virti, ma Irene rifiutò di cadere. Dopo aver sbrigato la commissione, lasciò i bambini dalla loro nonna, e lasciò la strada principale della cittadina, dirigendosi verso la più ripida delle vie selciate che salivano il fianco della collina; era così erta che a volte si spezzava in gradini, come una persona prorompe in risatine o singhiozzi, e poi riprendeva l’ascesa fino a un’altra crisi convulsa di scalini. In alto c’era il muro del giardino del maniero, e la porta ad arco spiccava bellissima contro il cielo limpido. Svoltando a destra prima di raggiungere la porta, Irene si soffermò un momento, e alzò lo sguardo verso la casa del Padrone.

Una dozzina di abbaini e di tetti spioventi tagliavano netti angoli scuri nel cielo; le finestre e i bovindi a molti vetri non erano mai allo stesso livello, ed era impossibile contare i piani della casa, se non per la presenza di tre grandi travi attraverso la facciata. La porta era massiccia, suddivisa in dodici pannelli. Mentre alzava il picchiotto d’ottone per batterlo sul disco lucido, Irene ricordò che aveva sognato molte volte quella porta, dall’altra parte.

Fimol, la governante, eretta e imperturbabile nella veste grigia dal collo alto, le maniche lunghe e la lunga gonna, aprì la porta pesante e fece entrare la visitatrice nella casa del Padrone. Fimol non sorrideva mai, e Irene aveva sempre soggezione di lei. Notò, quasi con un senso di slealtà, mentre la seguiva, che i capelli di Fimol erano imbiancati, che la figura impettita era esile, la figura di una donna fragile e anziana. Entrarono nella grande sala.

Era il centro della casa, quella stanza dall’alto soffitto. Di fronte alla lunga parete rivestita da pannelli di quercia c’erano dodici grandi finestre dai vetri al piombo affacciati sul giardino a gradinate. I pochi mobili erano di quercia scolpita, i tappeti erano di produzione locale, cremisi, arancione e marrone, e riscaldavano la stanza anche quando le candele non erano accese e c’era solo il limpido, costante crepuscolo che entrava dalle finestre. A ognuna delle due estremità della sala c’era un enorme camino di pietra; e sopra ognuno di essi, sopra l’ampio focolare e la mensola, era appeso un ritratto: una dama rigida e malinconica fissava attraverso la sala, con i tondi occhi neri, il suo signore, che nascondeva la mano destra storpiata all’interno della giacca e le rivolgeva una smorfia cupa.

Alla destra del camino più lontano, presso la porta che dava nei suoi uffici, il Padrone stava conversando con il tagliapietre, Gahiar. Quando vide Irene entrare insieme alla governante, la fissò con quella cupa smorfia ancestrale; poi la sua espressione cambiò; si staccò da Gahiar e attraversò la lunga sala, tendendo le mani. — Irena! Sei arrivata! — Era l’accoglienza che lei aveva immaginato spesso, nelle sue fantasticherie; ma non se l’era aspettata, e non si era mai chiesta cosa sarebbe venuto dopo.

Il Padrone, o sindaco, di Tembreabrezi era un uomo scarno e olivastro con il naso aquilino e gli occhi scuri. Portava calzoni neri di stoffa tessuta in casa, un po’ stinti sul tono ruggine e accuratamente rammendati, e il panciotto e la giacca della stessa stoffa. Era un uomo aspro, un uomo cupo. Lei lo aveva amato dalla prima volta che l’aveva visto. Il Padrone la condusse nel suo ufficio, dove c’era il fuoco acceso, e le tende erano chiuse, come per scacciare il grigiore d’una giornata invernale. Le offrì una sedia; e aiutata dalla dignità dei propri abiti, una gonna rossoscura e una camicetta tessuta in casa che Palizot teneva sempre in serbo per lei, Irene sedette senza goffaggine. Il Padrone restò accanto all’alto scrittoio dove lavorava in piedi (era un uomo che raramente si faceva vedere seduto) e volse su di lei lo sguardo intenso. Irene trasse un profondo respiro e tacque, con le mani in grembo.

— È passato molto tempo, Irena.

— Non potevo venire.

— La strada…?

— Non riuscivo a trovare… — E non riusciva neppure a trovare le parole necessarie. — Il posto — disse, e poi, ricordando che chiamavano così l’arco di pietra all’ingresso del maniero, soggiunse: — La porta. Era chiusa.

— Non potevi camminare sulla strada? — disse lui; non era spazientito dall’impaccio di lei, ma attento, in modo quasi ossessivo.

— Quando ho… quando ho potuto raggiungere la strada, sono riuscita a percorrerla. Ma all’inizio… — Irene s’impappinò di nuovo.