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— Avevi paura.

La voce del Padrone era gentile; lei non l’aveva mai sentito parlare così gentilmente.

— Quando ho varcato la porta. Era trascorso tanto tempo. E là, nel luogo dell’inizio, accanto al fiume, c’era…

Il Padrone disse una parola, quasi in un sussurro. Era la parola che il piccolo Virti aveva gridato, quando giocava a fare il mostro e lei non aveva voluto cadere, e Aduvan l’aveva rimproverato. Stai zitto, non dirlo, e i due bambini erano apparsi sovreccitati, sul punto di piangere. Un enorme, pallido braccio deforme proteso sull’erba…

— Un uomo — disse Irene. — Uno straniero.

Il Padrone ascoltava, intento, vigile.

— Uno straniero, come me. Non come me, ma… — Lei non conosceva altro modo per dirlo. Il Padrone, che evidentemente aveva compreso, annuì.

— Hai parlato con lui?

— No. Dormiva. Sono passata oltre. Non volevo… Avevo paura… — S’impappinò di nuovo. Non poteva spiegare il suo primo istante di panico. Sicuramente, lui avrebbe compreso perché una donna sola poteva aver ragione d’aver paura d’uno sconosciuto. Ma non seppe esprimere la rabbia che provava ora, rievocando la sua paura, e ricordando lo sconosciuto, il grosso dormiente, la lettiera di rifiuti di plastica, il senso di profanazione e di pericolo. Strinse le mani in grembo, con forza, e lottò con le parole che cercava, imponendosi di parlare. — Se lui ha trovato la porta, forse altri la troveranno. C’è… c’è tanta, tanta gente, là…

Se anche il Padrone comprendeva cosa intendesse lei con «là», la sua unica reazione fu un cupo cipiglio.

— Devi difendere le tue mura, Padrone! — disse Irene, disperatamente. Avrebbe voluto dire «frontiera» ma non conosceva quella parola, nella lingua di lui, né altre parole che significassero «confine» o «recinzione», eccettuata quella che indicava un muro di legno o di pietra.

Lui annuì. Ma disse: — Non ci sono muri, Irena. E ora, per noi, non vi sono più strade.

Il tono della voce la fece ammutolire. Il Padrone si volse verso lo scrittoio e dopo qualche istante continuò, con la stessa quiete forzata: — Non possiamo percorrere le strade. Sono chiuse. Tu sai che alcune ci sono chiuse da lungo tempo. La strada del sud, la tua strada… sai che non la usiamo. — Irene non l’aveva saputo, e lo fissò senza comprendere. — Ma avevamo i pascoli estivi e il Gradino Alto, e tutte le strade orientali, e quella del nord. Ora non li abbiamo più. Nessuno viene da Tre Fontane, o dai villaggi ai piedi delle colline. Neppure un mercante. Non viene nulla dalle pianure. Non giungono notizie dalla Città del Re. Per qualche tempo abbiamo potuto andare verso ovest, su per la montagna, lungo i sentieri, ma ora non più. Tutte le porte di Tembreabrezi sono sbarrate.

Non c’erano porte da sbarrare. Soltanto la via che conduceva alla strada del sud e alla strada del nord, e i sentieri che salivano e scendevano la montagna, a est e a ovest, tutti aperti, senza porte e senza barriere.

— È il Re a dire che non potete usare le strade? — chiese Irene, in preda alla frustrazione, incapace di comprendere; e poi si allarmò dell’avventatezza con cui aveva interrogato il Padrone. Imparare la lingua di lui, dopotutto, non era stato come imparare lo spagnolo alle medie superiori, la casa la casa, el rey il re… La parola rediai, che lei interpretava come «re», non significava necessariamente re, o ciò che lei intendeva per «re»; non aveva modo di sapere cosa volesse dire, se non sentendola usare, e non veniva usata spesso, tranne quando parlavano della Città del Re. Forse erano stati quell’anno di spagnolo e la sillaba iniziale, «re», a indurla a concludere che la parola avesse quel significato. Non poteva essere sicura. Temeva di aver detto qualcosa di stupido, di sacrilego. Il viso scuro del Padrone era rivolto dall’altra parte, e Irene vide che teneva le mani contratte sullo scrittoio.

Forse lui non aveva neppure udito la domanda. — Questo straniero — disse, voltandosi ma senza guardarla, con voce molto bassa, ma aspra. Esitò a sua volta.

— Potrebbe essere stato… un errore… ha sbagliato strada… — Un vagabondo, avrebbe voluto dire Irene, un intruso che si è accampato lì per passare la notte, senza notare nulla di speciale in quel luogo, e forse non ha attraversato nessuna soglia, e il giorno dopo se ne andrà, probabilmente chiederà un passaggio per andare in città, e forse se ne è già andato, questo non è il suo posto. Avrebbe voluto dire tutto ciò, anche se non poteva. Ormai era sicura che era vero. Era la verità che lei voleva e che, lo capiva benissimo, anche il Padrone voleva, perché la comprendeva e considerava la possibilità con sollievo evidente. Forse non era convinto, ma lei gli aveva dato una speranza di cui aveva bisogno. Il Padrone la guardò, finalmente, e sorrise. Il suo sorriso era raro, molto breve, e dolce. — Non osavo sperare che tu tornassi, Irena — disse sottovoce. Se lei avesse parlato, avrebbe potuto dire soltanto: — Ti ho sempre amato. — Ma non poteva, e non era necessario. Lui conosceva il proprio potere. Era il Padrone.

— Rimarrai con noi? — le chiese.

Intendeva dire per sempre? Il tono era controllato; Irene non era sicura.

— Più a lungo che potrò. Ma dovrò tornare indietro.

Lui annuì.

— E poi, quando tenterò di venire di nuovo qui, se la porta sarà di nuovo chiusa…

— Per te si aprirà, credo.

Gli occhi del Padrone erano strani, bui come caverne: qualunque cosa dicesse, quell’espressione introversa non cambiava.

— Ma perché…

— Perché? Quando conosci la risposta, la domanda non esiste, quando non c’è risposta, non c’è mai stata una domanda. — Sembrava un proverbio, e la voce di lui era secca e un po’ beffarda; era così che le aveva sempre parlato, e il ritorno a quel tono la confortò.

— Quella è la tua strada — disse il Padrone.

Si girò di nuovo verso lo scrittoio e soggiunse, quasi con indifferenza: — La strada del sud e quella del nord.

— Potrei andare a nord? Se c’è qualcosa che non va… Potrei andare a cercare aiuto… portare un messaggio…?

— Non so — disse lui, lanciandole una breve occhiata; ma c’era un balenio di lode o di trionfo sul suo viso; e quella luce restò con lei, dopo che il Padrone, secondo le tranquille usanze della sua casa, l’ebbe condotta a salutare sua madre e a conversare con lei, e dopo che se ne fu andata a trascorrere con Trijiat il resto della giornata. Per la prima volta, pensò Irene, voleva qualcosa da lei. C’era qualcosa che poteva dargli, se avesse scoperto che cos’era. Si era avvicinata molto, quando aveva parlato di andare a nord. Lui aveva subito cambiato argomento, ma non prima che lei avesse scorto quel guizzo di gioia o di lode.

Se almeno avesse potuto comprenderlo meglio! Doveva prendere sul serio ciò che diceva semi-beffardamente a proposito delle domande e delle risposte: Lui, e lei, e tutti quanti, lì, erano soggetti alle leggi del luogo, leggi assolute come la legge di gravità, altrettanto difficili da eludere, altrettanto difficili da spiegare. Le aveva detto, se pure Irene aveva ben compreso, che nessuno degli abitanti poteva lasciare la città: una legge o un potere lo impediva. Ma era possibile che lei, dato che poteva venire a Tembreabrezi, fosse anche in grado di lasciarla. O forse aveva inteso dire che, poiché proveniva dall’esterno di quella terra, era esente dalle sue leggi e non era tenuta a obbedire? Era questo che aveva inteso? Ma lei gli avrebbe obbedito. Lui era la sua legge. Se av.esse potuto accontentarlo; se avesse scoperto ciò che voleva! Se lui avesse chiesto, in modo che lei potesse dare…

Quello fu il suo soggiorno più lungo nella Città della Montagna. Un tempo, le sue visite erano frequenti ma brevi; adesso che poteva trascorrere una settimana o due (una notte o un weekend, oltre la porta), se voleva, la porta era quasi sempre chiusa. Aveva sempre desiderato di trovarla aperta, di varcarla. Adesso era lì, insediata alla locanda, e come sempre lavorava con Sofir e Palizot, faceva visita ai suoi amici e giocava con i loro bambini. Tutti, come sempre, la facevano accomodare a tavola se stavano mangiando, la facevano lavorare con loro, se stavano lavorando, la facevano sentire subito a casa sua. Era stata la cosa più bella, un tempo, ed era ancora una gioia. Ma non le bastava più. Adesso le sembrava che vi fosse un elemento di falsità, di finzione. La pace che sentiva lì, l’impressione di essere a casa sua, era autentica per loro, ma non per lei. Lei veniva e poi se ne andava di nuovo, e non faceva veramente parte della loro vita. Non avevano bisogno che li aiutasse a lavorare. Non avevano bisogno di lei.