A meno che, come aveva indicato il Padrone (ma l’aveva fatto davvero?) lei potesse aiutarli, non venendo lì, non restando lì, ma andando oltre.
Nessuno, tranne il Padrone, aveva ancora detto che qualcosa non andava; perciò, in un primo momento, Irene non vi fece gran caso. Poi, quando notò che in effetti nessuno veniva in città e nessuno la lasciava, che portavano le greggi solo ai pascoli più vicini, che scarseggiavano il sale e la farina di frumento, che quando Trijiat perse il suo ago da cucito rimase sconvolta e lo cercò per giorni… quando notò questo e quello, comprese che quanto aveva detto il Padrone era vero: tutte le strade erano chiuse. Ma perché? Da chi, da che cosa? Un paio di volte cercò di parlarne, con Trijiat, con Sofir; e quelli evitarono di rispondere, Sofir con una risata priva di significato, Trijiat con tanta paura che Irene comprese che non avrebbe più potuto affrontare l’argomento. Era un tabù, o un timore così profondo che non potevano parlarne. Non parlavano d’altro che delle attività della giornata, e fingevano che non vi fosse nulla di strano. E quella era la falsità che percepiva, il disagio. Avevano bisogno di aiuto, ma non volevano ammetterlo.
Come sarebbe stato il viaggio oltre Tembreabrezi, verso nord, giù alle pianure?
Un paio di anni prima, durante una lunga domenica dall’altra parte, Irene era andata con Sofir e il vecchio Homim, il mercante, e i suoi uomini e un convoglio di minuscoli asinelli carichi di stoffe, prima a un villaggio a nord, a un giorno di cammino oltre il dosso della montagna, e poi fino a una piccola città chiamata Tre Fontane, ai piedi delle colline a nord-est; erano rimasti là due giorni per commerciare, e poi erano ritornati, sei giorni di viaggio in tutto. Irene ricordava dove la strada per Tre Fontane svoltava verso est, e la strada del nord proseguiva diritta, verso un passo buio. Quanto erano più in basso le pianure, rispetto a quel punto? E quanto era lontana, attraverso le pianure, la Città di cui parlavano? Irene non ne aveva idea: molti giorni di cammino, senza dubbio, ma lei avrebbe potuto portare con sé i viveri, e sicuramente ci sarebbero stati villaggi e cittadine lungo la via, e quindi avrebbe potuto attraversare le lunghe pianure crepuscolari e giungere alla Città e chiedere aiuto per Tembreabrezi. Se quelli avrebbero mandato gli aiuti. O forse anche a lei era proibito percorrere le strade? Ma non avevano il diritto di proibirglielo. Se il Padrone le avesse chiesto di andare, sarebbe andata.
Lui non la mandò a chiamare. Irene divenne impaziente e irrequieta. Non capiva i suoi amici, che continuavano a lavorare e non parlavano mai di quel che non andava, come malati di cancro che dicessero «Sto benissimo, sto benissimo,» come sua madre che diceva sempre «Tutto va per il meglio»; non voleva pensare a questo, lì, e si risentiva d’essere costretta a pensarci. Perché non ne parlavano? Perché non facevano qualcosa? Che stavano aspettando?
Finalmente, il Padrone la convocò per un raduno in casa sua. Era già stata invitata altre volte a quei raduni. Le transazioni d’affari venivano trattate soprattutto nella sala grande della locanda, ma le decisioni che riguardavano qualcosa di più del commercio venivano prese durante lunghe, pensose conversazioni nella sala dai due camini. Venivano uomini e donne; e non sempre, ma spesso, il Signore del Maniero, e i visitatori di altre città più ricchi e raffinati. La madre del Padrone, Dremornet, con i capelli bianchi e gli occhi scuri, sedeva maestosamente in una poltrona di velluto sotto il ritratto dell’antenato dal braccio deforme. Se gli ospiti non erano numerosi, si radunavano intorno a lei, lasciando libero l’altro camino per le conversazioni private; quando c’era molta gente, si formavano due gruppi, uno ad ogni estremità della sala. Quella sera, una cerchia tranquilla di donne e di giovani s’era raccolta intorno alla poltrona di velluto, mentre tre o quattro uomini anziani pontificavano con il Padrone davanti all’altro camino. Naturalmente, quella sera non c’erano forestieri, eccettuata Irene. Lei restò con il gruppo intorno alla madre del Padrone fino a quando lui si avvicinò, rivolgendo a entrambe un’occhiata che era un segnale. Era arrivato il Nobile Horn.
Dremornet raccolse la gonna e si alzò per ricevere il visitatore con una riverenza, poi le altre donne s’inchinarono. Il Nobile Horn era un uomo magro, grigio e impettito. Fece un breve inchino rigido. Neppure lo spettacolo di quella vecchia dama minuta e solenne che eseguiva una solenne riverenza spianò le rughe fredde del suo viso. La figlia, un passo dietro di lui, bionda e vestita di sete pallide, s’inchinò e sorrise pallidamente, poi passò oltre. La loro funzione, pensò Irene, era fare e ricevere inchini; erano figure rappresentative, titoli vuoti. Il padrone della città era quello che veniva chiamato Padrone, Dou Sark. Ma lì erano tipi all’antica, e seguivano le vecchie usanze, e quindi ritenevano necessario anche avere un nobile signore.
Il Padrone l’aveva guardata di nuovo, mentre passava, e ben presto lei lo seguì. Davanti al secondo camino gli abitanti della città, che avevano continuato a gracidare come ranocchi in uno stagno, adesso attendevano con aria solenne. Il Nobile Horn ascoltava senza espressione e in apparenza anche senza interesse qualcosa che gli stava dicendo il Padrone. La figlia s’era seduta, scegliendo tipicamente l’unico seggio scomodo della sala, un mobile rigido ed esile ricoperto di broccato sbiadito. Stava seduta eretta e immobile. Fra la sua insipidità di pastello e l’opaca freddezza di Horn, il viso del Padrone era scuro e luminoso come le braci del focolare.
— Il Padrone mi ha detto — fece il Nobile Horn rivolgendosi a Irene, e fece una pausa, guardandola come se la vedesse da molto lontano, da una torre lontana molte miglia e con le finestre offuscate che gli rendevano più difficile la visuale… — Sark mi ha detto che hai incontrato un altro viandante, sulla strada del sud.
— Ho visto un uomo. Non ho parlato con lui.
— Perché? — chiese il Nobile Horn, e fece una nuova pausa, mentre metteva insieme le sue parole lente e fredde. — Perché non hai parlato con lui?
— Dormiva. Era… non era di qui… — Irene sentiva l’impulso bruciante e convulso di parlare; si afferrò alla prima parola che le venne in mente. — Era un ladro.
Un’altra lunga pausa, quasi insostenibile. Gli occhi grigi del Nobile Horn, che le ricordavano finestre di torri, non la guardavano più; ma lui parlò di nuovo. — Questo come lo sai?
— Era… tutto. Il suo aspetto, la sua aria — disse Irene, e nell’udire il brusco tono difensivo della propria voce, si sentì pervadere dalla stessa subitanea rabbia vendicativa che aveva provato nel vedere l’intruso e che provava di nuovo ogni volta che pensava a lui. Che diritto aveva d’interrogarla, quel vecchio? La nobiltà e la signoria, al diavolo… erano solo parole diverse per esprimere la prepotenza.
— Dunque tu credi che l’uomo non sia… — Un lungo silenzio, come se Horn avesse esaurito definitivamente le parole. — … Che non possa essere lui, quello che…
— Non capisco.
— L’uomo che aspettiamo — disse Horn.
Allora Irene vide che tutti, lì accanto al focolare, la guardavano, e che le loro facce, le logore facce pesanti degli uomini anziani e dei vecchi, erano intente, imploranti… chiedevano la risposta desiderata, la parola di speranza.