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Tra Patsi e Rick c’era stata una frenetica riconciliazione sessuale, l’ultima vampata. Un sabato sera, dopo una visita a sua madre, Irene rientrò durante il litigio più grosso che avessero mai avuto. Non poté starsene fuori. Lei faceva parte della famiglia. Quando Patsi accusò Rick di andare a letto con Irene, dovette difendere lui e se stessa; quando Rick accusò Patsi di non dividere onestamente le spese, dovette schierarsi dalla parte di Patsi, che poi se la prese con lei dicendo che pretendeva di comandare a tutti. Dopo ore e ore di quelle scene, si rese conto che l’unica cosa da fare (e avrebbe dovuto farlo subito) era prendere la sua roba e andarsene.

Patsi e Rick rimasero storditi, cupi. Patsi fece una divisione meticolosamente equa delle consèrve di lampone che avevano preparato insieme il mese prima, e insistette che Irene si prendesse esattamente la metà dei barattoli; continuò a piangere, con le lacrime che le rotolavano lentamente sulle guance, ma non disse addio. Rick aiutò Irene a portare la sua roba alla macchina, ripetendo: — Ah, merda. Beh, merda. — Irene se ne andò domenica mattina, dopo le otto. Guidò la macchina, carica dei suoi averi terreni contenuti in due scatoloni e in una valigia senza manico, per Chelsea Gardens Avenue e Chelsea Gardens Place, fino alla fattoria. I tre cagnolini cominciarono ad abbaiare, il doberman a latrare al rumore della macchina nel silenzio della domenica mattina. Esclusi i cani, la fattoria, circondata da carcasse di automobili sventrate, sembrava abbandonata. Irene uscì a retromarcia dall’aia, svoltò a destra sulla strada di ghiaia, arrivò al parcheggio sotto la fabbrica di vernici e la lasciò lì. Chiuse a chiave le portiere e si incamminò ancora una volta attraverso i campi incolti che già sobbollivano nel caldo di quella che prometteva di diventare una giornata afosa. Se la via è chiusa attenderò là, pensò. Mi metterò a sedere e attenderò finché si aprirà. Non m’importa se anche ci vorrà un mese… Era stravolta dall’interminabile nottata di litigi, discussioni, spiegazioni, recriminazioni, giustificazioni. Non aveva fatto colazione, anche se fra le quattro e le cinque del mattino aveva mangiato un po’ di pretzel e bevuto un litro di latte, mentre Rick diceva a Patsi che faceva la prepotente, e Patsi rinfacciava a Rick di essere un maschilista… Dormirò lì, davanti alla soglia, e ogni tanto mi sveglierò per vedere se si è aperta, si disse Irene. Apriti, apriti, apriti: quella parola le squassava la mente come ogni passo squassava il suo corpo. L’ardente luce del giorno l’abbagliava. Apritevi, occhi. Apriti, porta. Ecco i boschi, ecco la via che conduce nei boschi. Ecco il fossato, ecco il tratto coperto d’edera. Ecco il macchione, ecco il sentiero che scende, il pino con il tronco rosso, la soglia e la porta, la porta aperta, la via del mio paese, il mio paese, la patria del mio cuore.

Entrò nel crepuscolo. Bevve al ruscello, poi l’attraversò e lo risalì per un breve tratto, fino a un angoletto riparato da due grandi cespugli di sambuco dove, anni prima, lei dormiva spesso. Si sdraiò, emise un piccolo singulto gemente per la stanchezza e lo sbalordimento del desiderio esaudito; e si addormentò.

Nel vecchio paese il sonno era così profondo che non aveva sogni. Io sono il sogno, pensò insonnolita, il sogno sono io. Non c’è neppure la notte. Cos’è stato (e Irene si destò di colpo, si sollevò di scatto a sedere, con il cuore che martellava, perché era stato un suono che l’aveva destata, un grido acuto e lontano nei boschi) c’era stato un rumore?

Null’altro che il suono dell’acqua corrente e il sospiro del vento tra le cime degli alberi. Il cielo era quieto. Nulla si muoveva nella foresta.

Dopo un po’ si alzò cautamente, si guardò intorno cercando ogni eventuale segno di cambiamento, di pericolo. È colpa sua, pensò, quella faccia grassa, quel lumacone. Lui ha cambiato tutto. Non è più come una volta. Era un sollievo poter dare una causa alla propria inquietudine, una causa odiosa. Ma mentre si guardava intorno, cercando le tracce dell’intruso, il suo focolare, il suo zaino, e non vedeva nulla, non si sentiva affatto liberata dalla paura. Il cuore continuava a martellare, e aveva il respiro corto. Di che cosa ho paura? si chiese, irritata. Qui, proprio qui? È lo stesso posto di sempre, il luogo sicuro. Devo aver fatto un sogno, un brutto sogno. Voglio andare a Tembreabrezi. Vorrei esserci già adesso, nella locanda. Ho fame. Ecco che cos’ho che non va: ho fame.

Bevve ancora, a lungo, profondamente, per riempirsi lo stomaco, e colse qualche stelo di menta per masticarlo in cammino, e si avviò verso la Città della Montagna. Procedeva a passo leggero come sempre, più leggero e più svelto che mai, perché la fame la incalzava, e la paura la incalzava, e non poteva permettersi di fermarsi e di pensare all’una o all’altra, perché se l’avesse fatto sarebbero diventate intollerabili. Finché continuava a camminare non aveva bisogno di pensare, e la foresta crepuscolare fluiva intorno a lei come l’acqua dei ruscelli; procedeva così leggera e svelta che nulla avrebbe udito i suoi passi, nulla l’avrebbe notata, nulla si sarebbe levato davanti a lei sul sentiero, per sbarrarle la strada con le braccia bianche e grinzose.

C’erano candele accese alle finestre della locanda, come se la stessero aspettando. Per la via non c’era nessuno. Doveva essere tardi, almeno l’ora di cena. Al pensiero della cena, minestra, pane, stufato, zuppa di cereali, qualunque cosa di commestibile, Irene si sentì girare la testa; e quando Sofir le aprì la porta della locanda e lei trovò il tepore e la luce e il profumo dei cibi e il suono della voce profonda, le fu difficile continuare a reggersi in piedi. — Oh, Sofir — disse, — ho tanta fame!

Nel sentirla parlare arrivò Palizot, e sebbene non fosse una donna molto prodiga di gesti, baciò Irene e la tenne abbracciata per un momento.

— Avevamo paura per te — disse Sofir. La guidò a sedersi accanto al fuoco. Era veramente tardi; i soliti frequentatori della locanda erano tornati tutti a casa, il fuoco era basso. Sofír e Palizot cominciarono a trafficare per prepararle l’acqua calda per lavarsi, e qualcosa da mangiare, continuando a parlare. — E sai chi è venuto? — disse Palizot, e Irene l’interrogò: — Chi è venuto?

I due volti conosciuti e amati si girarono verso di lei nella luce giubilante delle fiamme; Palizot guardò Sofir sorridendo, indicandogli di parlare per entrambi. — È lui — disse Sofir. Ora è qui. Adesso le cose andranno meglio! — Lo disse con tanto calore e tanto piacere, con tanta certezza che Irene l’avrebbe condiviso, che lei non seppe che dire. — Ecco, è bollente — disse Palizot, presentandole un piatto; e nel vederlo, Irene rinunciò a preoccuparsi d’ogni altra cosa. Mangiò, immersa nella beatitudine del cibo e del riposo e della luce del fuoco e dell’amicizia; e poi Sofir le preparò la sua stanza, la camera affacciata sullo strapiombo scuro e la distesa delle foreste fino alla catena orientale.

Sofir era fuori, e Palizot era occupata, quindi Irene fece colazione da sola. Non era una colazione molto abbondante: un po’ di latte magro, un barattolo di formaggio e una pagnotta così dura e piccola, in confronto ai rotondi splendori bruniti che Sofir aveva tolto dal forno in altri tempi, che lei quasi non aveva il cuore di tagliare una fetta da quella povera cosa raggrinzita. Evidentemente, i mercanti della Città del Re non avevano più portato grano lì sulla montagna.