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— Se ci fossero giorno e notte — confermò Irene. Era molto strano, parlarne con un’altra persona, sentirne parlare. — Come sei passato attraverso la porta, la prima volta? — gli chiese per pura curiosità, e mentre lo chiedeva comprese che aveva esaurito tutto il suo furore, aveva accettato il fatto che lui fosse lì e glielo lasciava capire.

— Stavo… — Lui batté le palpebre. La voce gli si incrinò nella gola. — Stavo scappando. Da… non so. Vedi, sono incastrato. Non faccio quello che vorrei fare.

— Cosa vorresti fare?

— Niente. D’importante. — La risposta giunse in due frasi staccate. — Solo, vorrei andare a scuola, ma non ci riesco.

— Che genere di scuola?

— Per bibliotecari. Non è molto importante.

— Bene, se questo è ciò che vuoi nella vita, non c’è niente da dire. Che cosa fai?

— Sono cassiere in un supermarket.

— Già.

— Lo stipendio è buono. È un buon lavoro, sai. Tu come sei arrivata qui la prima volta?

— Scappavo. Anch’io.

Ma Irene si sentì la gola inaridita. Non poteva parlarne. Doris violentata, e il suo patrigno a casa, e tutto quanto, ormai era passato tanto tempo ed era inutile parlarne. Era fuggita. Era venuta lì. Lì tutto quello non esisteva. Lì c’era la pace, e il silenzio, e nulla cambiava mai, era sempre lo stesso. Li non facevi domande. Venivi a casa. Lui non poteva capirlo, era uno straniero. Irene non poteva dirgli che veniva lì perché lì c’era il suo amore. Il suo amore, il suo Padrone. Nessuno lo avrebbe mai saputo, nessuno l’avrebbe mai compreso, il centro e il segreto della sua vita, quel silenzio. Nella sua età, nella sua autorità, nella sua estraneità, persino nella sua durezza, in tutto ciò che li divideva, nella distanza che li separava, c’era spazio per il desiderio senza terrore, c’era spazio e tempo per l’amore senza effetto, senza punizioni e senza sofferenze. L’unico prezzo era il silenzio.

E lei taceva.

Lo straniero, massiccio contro la luce della finestra, era voltato a mezzo e guardava fuori.

— Vorrei poter restare — disse a mezza voce.

Ma si scostò dalla finestra, risolutamente; e andò a congedarsi dai suoi ospiti. Irene rimase solo per riferire la promessa che sarebbe ritornato al Nobile Horn, il quale accettò senza discutere la partenza e la promessa di ritornare; e poi lasciò il maniero. Mentre si avviava fra i campi verso la cancellata, Irene pensò al viaggio di ritorno che anche lei avrebbe dovuto compiere presto. Guardò il fianco scuro della montagna, il grigio remoto delle pareti di roccia. Il silenzio della montagna era pesante, come un coperchio abbassato su un suono, un suono sempre presente. Strinse le braccia contro i fianchi con un brivido, e proseguì. Perché ritornare? Lui doveva ritornare, ma per lei non aveva importanza. Perché compiere quella lunga camminata attraverso i boschi bui, fino alla porta, perché non restare lì, nel vecchio paese?

Lo aveva sempre detto a se stessa, mentre era a letto, nell’alta camera silenziosa della locanda: Perché non restare qui, e non tornare mai indietro… Ma non aveva mai immaginato cosa avrebbe fatto se fosse rimasta, e come avrebbe potuto inserirsi nella vita della cittadina, già completa senza di lei. Veniva, bisognosa d’aiuto e pronta ad aiutare, e imparava a filare e a cardare dalle donne, e saliva al Prato Lungo con i bambini, e scendeva a Tre Fontane con i mercanti, e faceva ridere la gente con i suoi errori, quando parlava, e poi ripartiva. Quella non era la sua patria, ma lei non aveva patria; stava alla locanda, e né lì né altrove c’era un posto veramente suo.

Si fermò, sotto il cancello di ferro, con le mani contratte.

— Irena.

Si voltò, e vide che lui le sorrideva.

— Vieni a casa mia — le disse. Andò con lui senza parlare.

Nella sala dai due camini, lei si fermò, e lui si fermò e si girò a guardarla.

— Lascia che vada a nord per te — disse Irene. — Alla Città. Il Nobile Horn non mi manderà. Manderà l’uomo. Lascia che vada per te.

Mentre parlava, vedeva le lunghe strade attraverso la pianura crepuscolare, le torri luccicanti, le porte, le belle vie grige che salivano verso il palazzo. Vedeva se stessa, la messaggera, percorrere quelle vie. Non lo credeva, eppure lo vedeva.

— Con me — disse il Padrone. — Tu verrai con me.

Irene sgranò gli occhi, completamente sbalordita.

— L’uomo parte stanotte. Domani, aspettami al mattino presso il cortile di Gahiar.

— Tu puoi… Possiamo andare insieme?

Lui annuì. Il suo volto era serio, cupo, ma l’incredula beatitudine che cresceva dentro di lei cantava: O mio Padrone, mio amore, insieme! Ma in silenzio; sempre in silenzio.

Sark la precedette di qualche passo. — Io sarò il signore — disse sommessamente, con voce leggera e secca. — Non lui, e non lui, ma io. — Si voltò a guardare Irene con uno strano sorriso. — Non hai paura? — chiese con la vecchia ironia.

Lei scosse il capo.

Dopo aver fatto colazione presto, Irene lasciò la locanda; dove la strada del sud si congiungeva alla via della piccola città svoltò a sinistra, passando davanti alla bottega di Venno il carpentiere e alla casetta della vecchia Geba. Camminava svelta, e le scarpe robuste scostavano la gonna ad ogni passo, lasciando intravvedere le calze a righe. Teneva le mani chiuse e le labbra strette. La strada non lastricata costeggiava il cortile del tagliapietre, deserto. Attese lì, dapprima irrequieta, camminando fra i cedri e i blocchi di pietra appena sgrezzata, e poi sprofondò nella passività dell’attesa, così che quando finalmente lo vide arrivare non provò sollievo e neppure una grande comprensione. I suoi sentimenti sembravano distaccati dalla sua mente e dai suoi sensi. Lo guardò avvicinarsi, magro, agile, scuro, con un bel volto scuro, ed era come se non l’avesse mai veduto prima e non lo conoscesse. Lui camminava svelto, un po’ rigido, e non si fermò quando passò davanti al cortile del tagliapietre. Parve che non la guardasse. — Vieni — disse. Irene lo raggiunse sulla strada. Lui aveva l’aspetto solito, ma portava una giubba di stoffa pesante e un coltello o pugnale nel fodero, appeso alla cintura, come facevano un tempo i mercanti quando scendevano dalla montagna, eppure c’era un cambiamento, in lui; aveva sempre lo stesso aspetto, ma lei non lo conosceva.

La strada girava leggermente. Ora volgevano le spalle alla città, e alla soglia che era molto più indietro. La strada incominciava a discendere in una gola fra alti argini rossicci di terra.

— Vieni! — ripeté lui. Irene aveva soltanto rallentato il passo per restare con lui.

Prosegui per un breve tratto.

— Padrone — disse, voltandosi. Lui s’era fermato. La fissava. Gli occhi e il viso erano stranissimi. Venne avanti, camminando direttamente verso di lei come se fosse cieco. Irene ebbe paura di lui.

— Aspetta — disse il Padrone; la sua voce era esile, e lei vide che gli tremava il mento. — Aspetta. Io… — S’era fermato di nuovo. Si guardò intorno, girando la testa con un gesto tremulo, guardando le scarpate della gola, e la strada, oltre lei. Avanzò di un altro passo e poi con un grido sibilante e lamentoso cercò di voltarsi e le ginocchia gli cedettero; si accasciò sulle mani e sulle ginocchia e poi, barcollando, si precipitò, risalendo la strada. Non avevano percorso più di cento metri dopo il cortile del tagliapietre. Irene lo raggiunse là. — Padrone — disse, — non fare così, va tutto bene… — Cercò di prendergli il braccio. Lui la respinse con la forza cieca del panico, scagliandola attraverso la strada, e continuò a correre verso la città, emettendo quell’esile grido sibilante.

Irene si rialzò: le girava la testa e si era scalfito un avambraccio sulla pietra. Si spolverò la gonna e rimase per un po’ ferma, stordita. Si avvicinò lentamente a un blocco di granito sgrezzato e vi sedette, con le braccia premute contro il ventre, la testa affondata sulle spalle. Sentiva un po’ di nausea, e l’impulso di urinare; alla fine, andò al fosso sotto i vecchi cedri e si accoccolò lì. Più in alto, accanto alla casetta di Geba, due capre magre belavano sommessamente. Irene ritornò alla pietra e si fermò a fissarla, a guardare i segni dello scalpello e le incisioni nel granito.