Hugh si sentiva girare la testa nel vederla tra sé e quell’immensità d’aria vuota. Si alzò, e si girò verso il prato. Attraverso l’erba, che lassù era corta, e vivida, come quella d’un giardino, tra l’orlo del baratro e la muraglia della montagna che s’innalzava, c’era una sporgenza di roccia, una specie d’isola nell’erba. Si avviò da quella parte. Era una massa di grandi macigni grigi, coperti di licheni, screpolati, rassicuranti per la loro grandezza e la loro solidità in quello strano posto così in alto. Era piacevole mettersi la roccia alle spalle. Sedettero entrambi con la schiena contro il macigno più grande, alto cinque, sei metri.
— È stata una tappa lunga — disse Hugh. Irena si limitò ad annuire. Lui tirò fuori i viveri dallo zaino, e se li divisero in silenzio. Il profilo di lei era minuto e severo, come una moneta di bronzo, contro il cielo.
— Irena.
— Cosa?
— Se vuoi dormire, starò io di guardia.
— D’accordo — disse lei, e senza aggiungere altro si raggomitolò contro la roccia, con il rosso fardello arrotolato come cuscino.
Hugh mangiò un altro panino (duro, granuloso, a forma di nodo, dal sapore gradevole) e un pezzo di formaggio di capra: non gli piaceva, ma aveva abbastanza fame per mangiarlo. Dopo aver riflettuto, mangiò un altro panino, imbottito con un pezzo di carne affumicata, e poi rimise i viveri nello zaino. Avrebbe voluto mangiare ancora, ma così sarebbe bastato. Adesso si sentiva molto meglio. Era trascorso molto tempo e avevano fatto molta strada da quando avevano lasciato la cittadina, e lui era stanco, ma non esausto. Se fosse rimasto lì seduto, con la schiena comodamente appoggiata alla roccia, si sarebbe addormentato, come lei. Avrebbe dovuto montare di guardia. Si alzò e cominciò a camminare a passo tranquillo, avanti e indietro, accanto all’isola di roccia.
Nel chiarore della luce d’alta montagna, più una trasparenza che un crepuscolo, un’onnipresenza della luce senza sorgente, il colore dell’erba era intenso: scuro e chiaro come uno smeraldo. Le foreste che chiudevano alle due estremità il prato (vicino, a sud, lontano, a nord) apparivano ruvide e nere. Sopra le pareti a strapiombo che incombevano sul prato, il prossimo gradino di quella scala enorme, torreggiava lo stesso ruvido nereggiare degli alberi, ripido e remoto; più sopra, la roccia nuda, le vette. In quel mondo d’aria e di pietra e di foreste non c’era altro colore che quel gemmeo verde scuro. Neppure un fiore sbocciava nell’erba alpina. Nessun fiore poteva schiudersi sui prati quando nessuna stella si schiudeva nel cielo. Questo, a Hugh, appariva chiaro; poi concluse che la sua mente si stava offuscando. Per svegliarsi, cambiò il percorso, girando in parte intorno all’isola di roccia, non completamente. Non voleva perdere di vista la ragazza addormentata.
Intorno al lato a nord, verso le pareti di roccia, c’era un tratto spelato in mezzo all’erba. La seconda volta che arrivò a quell’estremità della sua ronda semicircolare, si avvicinò di più, per vedere perché lì il terreno era nudo. Non era terreno, era pietra, una distesa di roccia a forma di scudo, una scapola della montagna che spumava attraverso la pelle. La superficie lievemente incurvata era spezzata in molti punti: Hugh si avvicinò ancora di più per guardare. C’erano anelli di ferro inchiavardati alla pietra, quattro, e formavano un rettangolo lungo più di due metri. La ruggine aveva macchiato la pietra e il lichene, intorno ai fori dei cavicchi metallici. Lui salì sulla roccia piatta e tirò uno degli anelli, ma quello non cedette. Una cinghia di cuoio non conciato, annodata intorno all’anello e spezzata al nodo, s’era accartocciata intorno al metallo fino a sembrarne un’escrescenza. Era tutto orribile, i grossi anelli incrostati di ruggine fissati alla pietra, tra le alte pareti e l’abisso, un luogo orribile. La ragazza dormiva lì, oltre i macigni, dal lato scoperto, indifesa. Così non andava. Era sbagliato essere lì. Quello era il posto sbagliato. Hugh voltò le spalle alla pietra piatta e in quel momento udì il grido nella foresta.
Un grido, un suono distante che era un sibilo e un singulto, appena più forte del battito improvviso del suo cuore.
Corse. La sensazione della presenza dell’abisso d’aria oltre il ciglio del baratro gli faceva girare la testa. La ragazza dormiva; la scosse, dicendo: — Svegliati, svegliati.
— Cosa c’è? — mormorò lei, confusa, facendo una smorfia, e poi spalancò gli occhi quando udì la voce, già molto più forte e più vicina, che ululava e singhiozzava nelle foreste all’estremità settentrionale del prato.
— Vieni — disse Hugh, trascinandola in piedi. Irena afferrò il fardello arrotolato e lo seguì, ansimante, silenziosa. Lui non le lasciò il braccio, perché all’inizio lei quasi non riusciva a muoversi, indebolita dal sonno o dal terrore. La trascinò per qualche passo; e poi, con un sussulto improvviso, lei si svincolò dalla sua mano e cominciò a correre. Si diressero verso la foresta, all’estremità più vicina del pascolo, fuggendo lontano dalla voce. Nessuno dei due aveva preso una decisione consapevole. Correvano. La voce divenne più forte dietro di loro, un ululato singhiozzante che martellava e martellava nei loro orecchi. Raggiunsero la foresta che aveva offerto un nascondiglio e adesso torreggiava come un labirinto di sentieri bui dove si sarebbero sperduti. — Aspetta! — Hugh tentò di gridare ma il respiro si bruciò nei suoi polmoni, lasciandolo senza voce, e lei non poteva udirla, perché il mostruoso, desolato ululare riempiva il mondo. Lei incespicò, e deviò dal tronco di un albero, e urtò contro Hugh, aggrappandosi ciecamente a lui, con la bocca aperta in uno strano varco quadrato. Lo strappò via dal sentiero che stavano seguendo. Hugh si lanciò con lei, giù per il declivio, fra i tronchi degli alberi e i macchioni, tra le foglie e i rami che sferzavano la faccia e gli occhi. Il terreno divenne più scosceso, sdrucciolevole, e inciamparono e scivolarono giù per il declivio per una quindicina di metri o più, per afferrarsi al baluardo di un albero semi-imputridito dove, senza fiato, paralizzati, si rannicchiarono. La voce scacciava ogni pensiero dalla mente, ancora più forte, orribile e desolata, enorme, famelica. Hugh alzò gli occhi, e l’essere che emetteva la voce era là, sul sentiero sopra di loro, e i macchioni tremavano e si agitavano mentre passava, bianco, grinzoso, alto il doppio di un uomo, trascinando la sua mole faticosamente e con terribile rapidità, la bocca tonda spalancata nell’ululato sibilante di fame e di sofferenza insaziabile, e cieco.
Passò. Passò oltre, trascinandosi dietro quel suono orribile.
Hugh giaceva con le spalle contro l’albero caduto, lottando per respirare, per riempirsi d’aria i polmoni. Il mondo scivolò e sbiancò intorno a lui. Quando riacquistò solidità, quando il dolore al petto diminuì, Hugh sentì il calore e il peso contro di lui, contro il fianco e il braccio sinistro. — Irena — disse in un sussurro muto, dando a quel calore un nome, ricomponendosi in quel nome, quella presenza. Lei era accovacciata, piegata in due, con la faccia nascosta. — Tutto bene — le disse.
— È andato — disse lei. — È andato.
— È andato?
— È passato oltre.
— Non piangere.
Lei s’era sollevata a sedere, ma il suo calore era ancora vicino a lui, e Hugh girò la faccia contro la sua spalla, in lacrime.
— Tutto a posto, Hugh. Adesso è tutto a posto.
Dopo un lungo tempo, il respiro di Hugh ridivenne normale. Alzò la testa e si mise a sedere. Irena si ritrasse un po’ e cercò di togliersi dai capelli le foglie e il terriccio, con le dita, e si massaggiò le guance bagnate.
— E adesso? — chiese con un filo di voce roca.
— Non so. Ti sei fatta niente?
Nessuno dei due s’era ferito, rotolando giù per il pendio, sebbene le scalfitture lasciate dai rami che avevano sferzato il viso di Irena spiccassero come linee tracciate da una penna rossa. Ma Hugh si sentiva ammaccato, esausto, oppresso dalla stanchezza mortale che l’aveva assalito sulla strada, oltre la porta; e Irena sembrava condividerla, mentre restava seduta con gli occhi semichiusi, la testa china.