Lei bevve e si lavò le mani e la faccia nel rivoletto limpido, e porse a Hugh l’acqua nel cavo delle mani, un sorso per volta, il massimo che poteva fare. Cercò di farlo mettere a sedere per potergli togliere la giubba. Hugh non collaborò. — È tutta coperta di sangue e… e intestini, Hugh, puzza…
— Ho freddo — disse lui.
— Ho una coperta, un mantello. È asciutto, ti terrà caldo.
La resistenza di lui non era conscia; e insistendo, lei gli tolse la giubba di pelle. Hugh gridò due volte di dolore mentre Irena cercava di sfilargliela, e lei pensò che avesse la spalla rotta o slogata, o il braccio ferito; ma lui disse abbastanza chiaramente: — Tutto bene. — Il petto della camicia era di un rosso-bruniccio pallido e viscoso; Irena gli tolse anche quell’indumento. Non gli vedeva addosso nessuna ferita. Le spalle, le braccia e il petto erano massicci, lisci e forti, bianchissimi in quel luogo semibuio tra le felci. Lo avvolse nel mantello rosso, e dopo avergli lavato la camicia la usò per ripulirgli meglio la faccia e la gola e le mani; poi la sciacquò di nuovo, risanata dall’acqua, dal suo contatto, dalla sua chiara freschezza. Quando lo lasciò stare, Hugh restò immobile a giacere, ad occhi chiusi. Il respiro era ancora superficiale, ma calmo. Irena gli rimase seduta accanto, tenendogli la mano sulla mano, per confortarlo e per confortare se stessa.
L’immensa gola sottostante era immota e silenziosa. Tutta la montagna taceva, se si escludeva la piccola musica costante della sorgente.
Era un bel luogo, quell’angoletto sul bordo del sentiero: le felci, i macigni, il velo lucente dell’acqua, i fermi rami scuri degli abeti. Irena alzò lo sguardo. Il sentiero aveva descritto una brusca svolta: dovevano essere direttamente al disotto dello spiazzo pietroso e dell’imboccatura della grotta. La sorgente doveva sgorgare più in basso del fondo della grotta. E lì usciva alla luce. Erano di fronte all’antro, ma erano più lontani, l’avevano superato. Non pensi mai a passare oltre il drago, si disse Irena. Pensi soltanto a raggiungerlo. Ma cosa accade, dopo?
Ricominciò a piangere, silenziosamente, senza soffrire. Le lacrime le scorrevano lungo le guance in un velo, come l’acqua di fonte. Pensò alle braccia orribili e patetiche, alle bianche mammelle appuntite; appoggiò il volto tra le braccia e pianse. Sono passata oltre la tana del drago e non posso tornare indietro. Devo andare avanti. Era la mia patria, la luce alla finestra, il fuoco nel focolare, là ero una figlia, la figlia, ma è finito. Ora sono soltanto la figlia del drago e la figlia del re, quella che deve proseguire sola, e andare avanti, perché non c’è una casa dietro di me.
L’acqua cantava, minuta e intrepida. Alla fine, Irena si raggomitolò per dormire. Quel luogo era umido; il contatto delle felci era freddo, il suolo madido. Non riusciva a scaldarsi. Lì vicino non c’era nulla che servisse per accendere un fuoco, e lei si sentiva troppo stanca, ora che s’era parzialmente rilassata, per andare a raccogliere legna e preparare il fuoco. Hugh dormiva profondamente. S’era girato quasi bocconi, e si stringeva addosso le braccia per riscaldarsi. Un angolo del mantello rosso s’era impigliato nelle felci e s’era liberato. Irena s’infilò lì sotto, si mise con la schiena contro la schiena di Hugh. Non servì a nulla. Si girò e gli passò un braccio sul fianco, sotto il lembo del mantello. Così c’era più caldo, c’era un conforto. Si addormentò come una pietra.
Si svegliò, e per un poco rimase così, lambita dal calore, cullata dal ritmo blando del respiro di Hugh e del proprio respiro, completamente tranquilla. I ricordi cominciarono a prendere forma, insinuandosi come gli angoli e i ciottoli del letto del ruscello; ancora una volta lei scese correndo lo stretto, ripido sentiero verso l’imboccatura dell’antro, gridando la sua sfida, e ancora una volta, e scivolò sulle rocce e cadde… e si levò a sedere, districandosi dalle pieghe del mantello rosso. Per un poco rimase così, ancora insonnolita, e girò lo sguardo intorno, sulle felci e sul rivoletto, gli alberi giù nella gola, le profondità azzurre e le linee lontane della catena, il cielo senza colore. Si trascinò al ruscelletto e si rannicchiò per bere dove l’acqua s’increspava sulla curva di un macigno grigio, e si lavò la faccia e la nuca per schiarirsi la mente; e poi proseguì lungo il sentiero e lo abbandonò, addentrandosi fra i rami per orinare. Quando ritornò, Hugh si era seduto, avvoltolato nel mantello, aggobbito. I folti, ruvidi capelli biondi, induritisi quando lei aveva cercato di lavarli per liberarli dal sangue, gli stavano ritti in testa; la barba era folta e ispida sul mento; appariva pesante e stravolto. Quando gli domandò come stava, impiegò molto tempo a rispondere. — Bene — disse. — Freddo.
Lei estrasse pane e carne dall’involto. Gli offrì la sua parte, ma Hugh non sporse la mano dal mantello per prenderli. Si aggobbì ancora di più, desolato. — Adesso no — disse.
— Su, avanti. Non hai mangiato per tutto… ieri, quando è stato.
— Non ho fame.
— Almeno bevi un po’.
Lui annuì, ma non si mosse per andare a bere al rivoletto. Dopo un poco disse: — Irena.
— Sì — disse lei, masticando la carne affumicata. Aveva una fame tremenda, e già adocchiava la razione che lui non aveva toccato.
— Il… Dove…
— Lassù — disse Irena, indicando il pendio alberato sopra la sorgente. Lui alzò lo sguardo, irrequieto.
— È…
— Era morto.
Hugh rabbrividì; Irena vide il fremito scuoterlo in tutto il corpo. Le faceva pena, ma in quel momento lei pensava soprattutto al cibo. — Mangia qualcosa — disse. — È buono. Fra non molto dovremo rimetterci in cammino. Se te la senti.
— In cammino — ripeté lui.
Irena addentò un pezzo di pane secco e duro. — Via. Fuori. Alla porta.
Lui non disse nulla. Prese una striscia di carne affumicata, la masticò svogliatamente, poi desistette. Andò al rivoletto, a bere. Si muoveva con impaccio, e impiegò un po’ di tempo per abbassarsi in modo da poter bere. Bevve a lungo, e finalmente si alzò, laboriosamente, stringendosi intorno alle spalle il mantello rosso. — Ho bisogno della mia camicia o di qualcosa — disse.
— Vedi se è asciutta. Ho dovuto lavarla. E anche la giubba.
Hugh si guardò i jeans, irrigiditi e anneriti dalle striature di sangue coagulato, e deglutì. — Giusto. Dov’è? — Vide la camicia che lei aveva steso ad asciugare su una grande felce, e si liberò del mantello per indossarla. Irena lo guardava, osservando la bellezza delle massicce braccia lucide e della gola. La pietà e l’ammirazione la pervasero. Disse: — Hai ucciso il drago, Hugh.
Lui finì di abbottonarsi la camicia, e dopo un minuto si girò verso di lei. Tra i macigni grigi e le felci arcuate, stava immobile, e lei stava immobile tra la roccia e le felci; e si guardarono.
— Tu mi hai preceduto — disse Hugh, lentamente, rivivendo il momento alla svolta del sentiero più in alto. — Sei scesa correndo… hai gridato: «Vieni fuori». Come… Perché l’hai fatto?
— Non so. Ero stanca di avere paura. Mi sono infuriata. Quando ho visto la grotta. Quando l’ho vista, ho saputo che lei era là dentro, e che tu saresti entrato per cercarla, saresti entrato e non saresti più uscito, e non ho potuto sopportarlo. Ho dovuto farla uscire.
Hugh infilò nei jeans le falde della camicia, rabbrividendo a ogni movimento.
— Hai detto «lei» — mormorò.
— Infatti. — Irena non voleva parlare delle mammelle e delle braccia esili.
Hugh scosse la testa, con aria nauseata e un pallore crescente. — No, era… La ragione per cui ho dovuto ucciderlo… — disse, e poi tese la mano brancolando per cercare un appoggio, e si alzò vacillando.
— Non importa. È morto.
Lui restò immobile, distogliendo il viso, guardando il ruscelletto.