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Durante la terza visita, decise di tentare il guado. Si sfilò le scarpe. Il ruscello sembrava poco profondo. Hugh mise il piede in una fossa e si bagnò fino a metà coscia; tornò a riva fra gli spruzzi, si tolse i jeans, la camicia, le mutande, e tornò a immergersi, nudo, nell’acqua fredda e rumorosa. Nel punto più profondo non gli saliva oltre le costole, ma c’era un punto nel quale lui poteva nuotare per qualche bracciata. Andò sott’acqua, spinto dalle correnti forti, con i capelli che ondeggiavano sciolti nell’oscuro chiarore. Nuotò, si scalfì le ginocchia contro le pietre nascoste, posò le mani e i piedi su molli superfici invisibili, lottò con l’urlante acqua bianca fra i macigni, dove tumultuava la corrente. Uscì dall’acqua come un bisonte lanciato alla carica, scrollandosi e pestando i piedi per il freddo, con energia, e si asciugò con la camicia. Dopo quella volta, nuotò sempre, ogni volta che ritornò lì.

Poiché veniva al luogo del ruscello soltanto al mattino presto, continuava a pensare che non avrebbe potuto trascorrere lì la notte, come aveva immaginato di fare. E infatti, lì non poteva passare la notte, perché lì non era mai notte. Non era mai diverso. Non cambiava mai. Era sera inoltrata. Qualche volta gli sembrava che fosse un po’ più buio, oppure un po’ più chiaro della volta precedente; ma non ne era mai sicuro. Non aveva mai visto direttamente la stella sopra l’alto pino, ma era certo che ogni volta fosse lì, nello stesso punto. Ma lì il suo orologio non funzionava. Il tempo non si muoveva. Era come un’isola, e il tempo le scorreva intorno come l’acqua di un fiume, come le maree intorno a una pietra nella sabbia. Potevi andar lì, e restarci, e uscivi sempre nello stesso momento in cui eri entrato. O quasi. Quando Hugh aveva l’impressione di essere rimasto lì un’ora o più, il suo orologio sembrava indicare che erano trascorsi alcuni minuti, quando ritornava nella luce del sole. Forse non si fermava, forse lì funzionava molto lentamente, lì il tempo era diverso: entrando nella radura entravi in un tempo diverso, un tempo più lento. Era assurdo, non era neppure il caso di pensarci.

La quarta volta, o la quinta, Hugh restò molto a lungo nel luogo del ruscello, nuotò, accese un fuoco e vi rimase seduto accanto; di primo pomeriggio, mentre lavorava da Sam’s, si sentì stordito, semiaddormentato. Se si fosse fermato e se avesse dormito nel luogo del ruscello, non sarebbe stato costretto a star sveglio per venti ore consecutive. Avrebbe vissuto due vite. Anzi, avrebbe vissuto due vite nello spazio di una, il doppio nella stessa durata di tempo. Stava sistemando il sedano nel banco espositore quando ci pensò. Rise, e si accorse che gli tremavano le mani. Un cliente che stava esaminando le verdure, un vecchio ossuto, guardò cupamente i funghi a $ 2,24 e disse: — Quei pazzi che parlano di droghe psicologiche avrebbero bisogno di una lezione. — Hugh non capì se il vecchio parlava di lui o dei funghi o di qualche altra cosa.

Durante l’ora di pranzo andò al negozio d’articoli sportivi a prezzi scontati, nel centro commerciale dall’altra parte della superstrada. Spese quasi tutta la paga settimanale per un sacco a pelo, una scorta di viveri da campeggio, un robusto coltello a serramanico bilama, e un completo per cucina d’acciaio, irresistibilmente compatto. Mentre si avviava verso la cassa tornò indietro e aggiunse uno zaino d’occasione, un residuato militare. Mentre riponeva le confezioni dei viveri nello zaino si rese conto che non avrebbe potuto portarlo a casa. Quella sera, sua madre non sarebbe uscita. Sarebbe stata là, al suo arrivo. Cos’è tutta quella roba, Hugh, perché hai comprato uno zaino, un sacco a pelo, ma per comprarne uno che valga davvero qualcosa bisogna spendere un patrimonio, e quando credi che userai tutti questi oggetti costosi? Era stato uno sciocco a comprare tutto quanto. Cosa credeva di fare? Portò il materiale, nell’afa, a Sam’s Thrift-E-Mart, lo chiuse nel frigorifero del magazzino in fondo, e andò dal direttore, a chiedere il permesso di uscire un’ora prima.

— Perché? — chiese quello in tono acido, acquattato nell’ufficio pieno di scatoloni vuoti, odoroso di vecchio yogurt e di sigari.

— Mia madre sta male — disse Hugh.

Mentre pronunciava quelle parole impallidì, e il sudore cominciò a coprirgli il volto.

Il direttore lo guardò, forse impressionato, forse indifferente. Dopo averlo fissato a lungo in silenzio, disse: — Va bene — e gli voltò le spalle.

Hugh lasciò l’ufficio del direttore: sentiva il pavimento e le pareti sussultare e ondeggiare. Il mondo divenne bianco e piccolo come un albume d’uovo, come la sclerotica di un occhio. Hugh stava male. Sua madre stava male, sì, stava male, e aveva bisogno di aiuto.

E io l’aiuto. Mio Dio, cosa posso fare, ancora, più di quello che faccio? Non vado mai in nessun posto, non conosco nessuno, non frequento una scuola, lavoro vicino a casa, dove lei sa sempre dove sono, rientro a casa tutte le sere, passo con lei i weekend, faccio tutto quello che vuole… cosa posso fare, più di quel che faccio?

Quell’autocritica era ingiusta, e lo sapeva, e non importava che fosse giusta o ingiusta, era il giudizio, e lui non poteva sottrarvisi. Si sentiva le viscere sconvolte ed era ancora un po’ stordito. Continuò il suo lavoro, goffamente, commettendo continui errori stupidi alla cassa. Era venerdì, un pomeriggio pesante. Non riuscì a chiudere la sua cassa fino alle cinque e dieci, e ce la fece solo perché pregò Donna di sostituirlo. — Ti senti male, caro? — gli chiese lei, quando le passò la chiave del registratore. Lui non osò ripetere la menzogna perché non divorasse di nuovo la verità. — Non so — disse.

— Ma abbiti cura, Buck.

— Certo.

Si avviò verso il fondo del supermercato, impacciato, fra le corsie affollate. Tirò fuori il sacco a pelo e lo zaino dalla cella frigorifera e si avviò per la strada, verso est e non verso ovest, in direzione della fabbrica di vernici, dei campi abbandonati, della porta. Doveva andare là. Tutto sarebbe andato bene, quando fosse arrivato là. Era il suo posto. Là stava bene.

I campi erano caldi come fornaci. Fradicio di sudore e con la bocca arida come l’intonaco, Hugh si addentrò nei boschi, si lasciò indietro l’afa e la luce viva del giorno, via via che il sentiero scendeva e attraversava la soglia del crepuscolo. Depose il suo carico e, come sempre, andò diritto alla riva del ruscello, s’inginocchiò e bevve. Il suo respiro si spezzò in un «ah!» d’estasi dolorante, nel sentire il freddo dell’acqua, la pressione e la forza turbinosa della corrente, la superficie granulosa delle pietre sotto i suoi piedi, contro le palme delle mani. Scivolò nella lanca profonda, s’immerse, lasciò che l’acqua s’impadronisse di lui, e l’acqua era in lui e lui era nell’acqua, in un’unica gioia oscura. Tutto il resto era dimenticato.

Riaffiorò, accecato dai capelli, galleggiò per un poco sotto il cerchio del cielo senza colore e senza nuvole; e poi, alla fine, quando il freddo dell’acqua gli arrivò alle ossa, toccò il fondo e risalì sguazzando a riva. S’immergeva sempre in silenzio, con reverenza, e ne usciva rumorosamente, pieno di vita. Si massaggiò, infilò i jeans, e sedette accanto allo zaino, per aprirlo con molta solennità. Avrebbe preparato il campo; avrebbe cucinato la cena. Avrebbe disposto il suo letto lì, al riparo degli arbusti, fra l’erba alta, e si sarebbe sdraiato, per dormire accanto all’acqua corrente.