Si svegliò sotto gli alberi scuri, con la testa pervasa dall’odore della menta e dell’erba. Il vento lieve gli toccava il viso e i capelli come una mano scura e trasparente.
Fu uno strano, lento risveglio. Non aveva sognato, eppure sentiva che stava sognando. Era pieno di una fiducia totale, d’una sicurezza assoluta. S’era sdraiato e aveva dormito su quel terreno, e quindi gli apparteneva. Non gli sarebbe accaduto nulla di male. Quello era il suo paese.
Si alzò, si lavò al ruscello; s’inginocchiò sopra la pietra sporgente e guardò l’erba pallida della radura, dall’altra parte, le masse scure di arbusti e di fogliame, la limpidezza del cielo sopra gli alberi. Poi si alzò, e si avviò attraverso il ruscello, a piedi nudi, questa volta senza immergersi nell’acqua, ma passando di pietra in pietra fino a quando l’ultimo, lungo passo lo portò sulla sabbia dell’altra sponda. Anche da quella parte, sulla proda erbosa, cresceva la menta. Hugh ne prese una foglia, come se fosse un rito, e la masticò. La menta dell’altra riva aveva lo stesso sapore. Non c’erano confini. Era tutto territorio suo. Ma per questa volta s’era già spinto abbastanza lontano; non sarebbe andato oltre. In parte, il piacere di essere lì era motivato dal fatto che poteva ascoltare e obbedire a tutti gli impulsi e i comandi che venivano da dentro di lui, incontaminati dalle pressioni e dalle pulsioni esterne. In quell’obbedienza, per la prima volta dall’infanzia, sentiva l’euforia della libertà, la serenità del potere. Ora aveva deciso di non andare oltre. Quando avesse deciso di andare oltre l’avrebbe fatto. Masticando la foglia di menta, riattraversò il ruscello con lunghi passi regolari.
Si vestì, arrotolò con cura il sacco a pelo e lo nascose scrupolosamente nella cavità sotto un cespuglio, sistemò lo zaino con i viveri sulla biforcazione di un albero (aveva letto che bisognava far così, per proteggerlo da qualcosa… orsi, formiche, formichieri? comunque, sembrava meglio che lasciarlo abbandonato a terra) poi s’inginocchiò per bere di nuovo al ruscello e se ne andò.
Arrivò a Oak Valley Road alle sette della sera in cui aveva lasciato il lavoro alle cinque e un quarto. Sua madre non aveva preparato la cena; era troppo caldo per cucinare, gli disse; andarono a un ristorante per mangiare un hamburger, e poi al cinema.
Hugh credeva che sarebbe rimasto sveglio tutta la notte, perché aveva dormito nel luogo del ruscello, ma dormì profondamente nel suo letto; solo, si svegliò prima e più facilmente del solito, alle quattro e mezzo, prima del levar del sole, nell’altro crepuscolo, il primo, il crepuscolo del mattino. Quando raggiunse i boschi, il sole era sorto nel fulgido, immane splendore dell’estate. Hugh lo abbandonò, scendendo nella terra serotina, tranquillo e deciso, pronto ad attraversare l’acqua e ad esplorare, a imparare a conoscere quel regno che trascendeva la ragione e il dubbio, il suo luogo, il suo territorio. S’inginocchiò accanto all’acqua scura e limpida per bere. Alzò la testa per vedere dove sarebbe andato e vide di fronte a lui, al di là del movimento continuo, scintillante e sinuoso del ruscello, sull’altra riva, un cartello quadrato inchiodato a una tavola piantata per terra, nero su bianco: VIETATO L’ACCESSO.
2.
Forse adesso la porta era sempre chiusa, chiusa per sempre, scomparsa. Andare al bosco di Pincus, e al luogo dove doveva essere, e vedere la stupida luce del giorno, i macchioni polverosi, il fosso, e poi la recinzione di filo spinato attraverso il primo pendio della collina, senza il sentiero che scendeva, senza la porta… era inutile continuare a insistere. La prima volta che l’aveva trovata chiusa, due anni prima, lei s’era fermata lì, dove avrebbe dovuto essere, e le aveva ordinato di aprirsi, le aveva comandato di esistere. Ed era ritornata il giorno dopo e quello successivo, e s’era accovacciata e aveva pianto. Poi, dopo una settimana, era ritornata ancora, e la porta c’era, e lei era entrata, così, facilmente. Ma non poteva esserne sicura. Probabilmente non ci sarebbe stata. Non aveva neppure tentato, per mesi; era stupido continuare a tentare. La faceva sentire sciocca, come una bambina che giocasse a nascondino senza nessuno con cui giocare. Ma la porta c’era. Lei la varcò ed entrò nel crepuscolo.
Avanzò, socchiudendo gli occhi, insospettita, camminando come se temesse che il terreno le potesse venire strappato sotto i piedi come un tappeto. Poi si lasciò cadere carponi e baciò la terra, premendovi contro la guancia, come una lattante. — Così — sussurrò, — così. — Si alzò, e tese le braccia verso il cielo, poi andò in riva al ruscello, s’inginocchiò, si lavò rumorosamente la faccia e le mani e le braccia, bevve, rispose al canto sonoro e incessante dell’acqua: — Così ci sei, così ci sono, così. — Sedette a gambe incrociate sulla roccia sporgente, immobile, e chiuse gli occhi per contenere la sua gioia.
Era trascorso tanto tempo, ma nulla era cambiato; non cambiava mai nulla. Lì era il «sempre». Lei doveva fare quel che faceva sempre quand’era una ragazzina di tredici anni, quando aveva trovato per la prima volta il luogo dell’inizio, prima ancora di attraversare il fiume; poteva fare le cose che faceva allora, il culto del fuoco e la danza interminabile, la volta che aveva sepolto le quattro pietre sotto l’albero grigio, più a monte. Dovevano essere ancora là. Nulla le avrebbe spostate. Quattro pietre disposte in quadrato, una bianca, una grigiazzurra, una gialla, una bianca, e le ceneri delle sue offerte; e la statua lignea che lei aveva intagliato, al centro. Era stata una sciocchezza, un’idea da bambina. Anche le cose che la gente faceva in chiesa erano sciocche. C’erano ragioni per farle. Lei avrebbe danzato la danza interminabile, se ne avesse avuto voglia; avrebbe continuato a danzarla; aveva quella caratteristica, non finiva mai. Quello era il luogo dove lei faceva ciò che voleva. Era il luogo dove era se stessa. Era a casa, a casa… No, ma era sulla via di casa, finalmente; ora poteva andare, ora sarebbe andata, attraverso il triplice fiume e avanti, verso la montagna scura, a casa.
Si alzò sulla roccia sporgente, e con le braccia allargate, le mani incurvate come se reggessero sonagli o bacili di fiamma o d’acqua, danzò sulla pietra, in rapidi movimenti ondeggianti, danzò per la spiaggia, per il guado… e si arrestò.
In un cerchio di pietre, sulla sabbia, pochi metri più a valle rispetto al guado, c’erano le ceneri di un fuoco.
E accanto, utensili e pacchi, seminascosti sotto i rami chini di un ontano. Plastica, acciaio, carta.
Senza far rumore, lei avanzò d’un passo. Le ceneri erano ancora calde, e si sentiva l’odore acre del legno bruciato.
Nessuno veniva lì. Nessuno, mai. Quel luogo era soltanto suo. La porta era per lei, il sentiero era per lei sola. Chi, standosene nascosto, aveva assistito alla sua danza, e aveva riso? Si voltò per cercare, rigida, per sfidare il nemico, «Vieni avanti, vieni fuori!», quando, con una scossa di paura assoluta che le tolse completamente il fiato, vide l’enorme braccio pallido tendersi brancolando verso di lei, sull’erba…
…e mentre vedeva la cosa mostruosa, comprese che cos’era, e scorse un sacco a pelo marrone, qualcuno in un sacco a pelo sull’erba, accanto ai cespugli. Ma la scossa era stata così violenta che lei si lasciò cadere accosciata, dondolandosi leggermente, fino a quando riprese il fiato e il biancore abbandonò i limiti della sua visuale. Poi, cautamente, si alzò di nuovo e scrutò attraverso l’orlo erboso del greto. Poteva dire soltanto che il sacco a pelo era immobile. Se avesse mosso un altro passo, in quel punto, avrebbe calpestato la sabbia soffice e vi avrebbe lasciato un’orma. Si ritrasse sulla pietra sporgente, poi passò sull’erba, e girò dietro gli arbusti di sambuco fino a quando poté vedere chiaramente l’intruso. Una bianca faccia pesante, resa inespressiva dal sonno, la bocca semiaperta, i capelli chiari in disordine, il lungo rilievo del sacco a pelo che sembrava un sacco di rifiuti, come sterco di cane sul suolo del suo luogo amatissimo, il terreno che lei aveva baciato, il suo paese.