Rimase immobile come il dormiente. Poi, all’improvviso, si voltò e a passi rapidi e leggeri, silenziosi nelle scarpe da tennis, raggiunse il guado, attraversò, passando di pietra in pietra, sopra le acque gaie, salì sull’altra sponda e si avviò sulla strada del sud, procedendo all’andatura dei viandanti, non una corsa o un trotto, ma un passo svelto, regolare, leggero che aumentava rapidamente le distanze. Mentre camminava guardava diritto davanti a sé, e per un lungo tratto, per molto tempo, non vi furono pensieri nitidi nella sua mente, solo il contraccolpo del terrore e della collera e, quando questo scomparve, il vuoto arido che conosceva troppo bene, comunque lo si chiamasse, e che forse era angoscia.
Non c’era nessun luogo dove andare, nessun luogo dove stare. Persino lì non c’era pace, non c’era posto.
Ma la direzione che percorreva le diceva stai andando a casa. La sua pelle toccava l’aria del suo paese, i suoi occhi guardavano le foreste del crepuscolo. Il ritmo del passo, dei pendii in salita, dei pendii in discesa, i fiumi, i lunghi ritmi della terra acquietavano l’angoscia, colmavano finalmente il vuoto. Più si addentrava nel crepuscolo e più apparteneva ad esso, interamente, fino a quando ogni pensiero dell’intruso nel luogo dell’inizio si smorzò, e la sua mente si sintonizzò su ciò che le stava intorno, mentre proseguiva verso la meta. Le foreste s’incupirono, il percorso divenne più scosceso. Era trascorso molto tempo dall’ultima volta che era venuta alla Città della Montagna.
E la via era lunga. Lei dimenticava sempre quanto fosse lunga e faticosa. Quando aveva trovato la via per la prima volta, usava interrompere il viaggio con una dormita al Terzo Fiume, ai piedi della montagna. Fin da quando aveva compiuto i sedici anni, era sempre riuscita a raggiungere Tembreabrezi in un’unica tappa; ma era dura, su per i ripidi pendii scuri, su, su, avanti, sempre più lontano di quanto lei ricordasse. Aveva i piedi doloranti, le gambe stanche e una gran fame, quando finalmente arrivò alla strada sgombra e alla lunga curva. Ma quella era la vera gioia, giungere lì esausta, bramosa di cibo e di calore e di riposo, lieta in cuor suo di vedere le finestre illuminate sul fianco freddo della montagna e contro il cielo, e di sentire l’odor di fumo dei fuochi, l’odore che fin dall’inizio del tempo sussurra, Hai lasciato i luoghi desolati, stai tornando a casa. E udire le voci che pronunciavano il suo nome.
— Irena! — gridò la piccola Aduvan, sulla via davanti al cortile della locanda, dapprima sbalordita e poi prorompendo in un sorriso e in un grido rivolto alle sue compagne di gioco: — Irena tialohadji! — Irena è ritornata!
Irene abbracciò la bambina e la fece roteare nell’aria fino a quando strillò, e le quattro piccole gridarono tutte, con le loro voci dolci ed esili, per farsi abbracciare e sollevare saltellando intorno a lei finché Palizot si affacciò dal cortile per vedere qual era la causa del chiasso, e si fece avanti asciugandosi le mani sul grembiule, calma, dicendo: — Entra, entra, Irena. Vieni da così lontano, sarai stanca. — Così aveva accolto Irene la prima volta che era giunta alla Città della Montagna, a quattordici anni, affamata, sporca, stanca, impaurita. Allora lei non conosceva la lingua, ma aveva compreso ciò che le diceva Palizot: Entra, piccola, vieni a casa.
Il fuoco ardeva nel grande camino della locanda. Un profumo appetitoso di cipolle, cavoli e spezie pervadeva le stanze. Tutto era com’era stato, come doveva essere, con un paio di migliorie da ammirare: i pavimenti erano coperti da stuoie di paglia rossiccia, anziché da sabbia sparsa sul legno nudo. — È molto bello, è più caldo — disse Irene, e Palizot, compiaciuta ma critica: — Non so ancora quanto dureranno. Ci vuole un po’ di luce qua dentro, oltre al fuoco. Sofir! È arrivata Irena! Resterai un po’ con noi, levadja?
Bambina, significava quella parola, cara bambina; lì aggiungevano «adja» anche ai nomi, trasformandoli in vezzeggiativi. A Irene faceva piacere, quando Palizot la chiamava così. Annuì, poiché aveva già deciso di trascorrere lì dodici giorni, una notte soltanto dall’altra parte della soglia. Stava cercando di scegliere le parole per una domanda, e non le trovò subito, perché erano trascorsi mesi dall’ultima volta che aveva parlato quella lingua. — Palizot. Dimmi. Da quando sono stata qui… è venuto qualcuno dalla strada del sud?
— Non è venuto nessuno, da nessuna strada — disse Palizot, una strana risposta, in tono calmo e grave. Poi Sofir salì dalle cantine, con le ragnatele sui folti capelli neri, un uomo dalla voce di baritono, modellato con le stesse dimensioni dal petto al fianco, così che sarebbe stato possibile dividerlo in sezioni rotonde, come un tronco d’albero; abbracciò Irene, le strinse le mani, tuonando gioiosamente: — È passato tanto tempo, Irenadja, tanto tempo, ma sei tornata!
Le assegnarono la sua stanza preferita, e Irene aiutò Sofir a portar su la legna per il camino. Sofir preparò e accese subito il fuoco per riscaldare e arieggiare la stanza; sembrava che non fosse stata usata per diverso tempo. Non c’erano altri ospiti alla locanda. In sé, la cosa non era insolita, ma Irene cominciò a notare altri indizi che pochi viaggiatori e poco traffico venivano alla locanda. I grossi boccali di peltro per la birra, appesi in fila lungo la parete, non erano stati usati di recente, a giudicare dall’aspetto, per una chiassosa serata tra mercanti o per il benvenuto a un gruppo di compratori di stoffe arrivati dalle pianure. Irene andò a vedere quante bestie c’erano nella stalla; ma non ce n’era nessuna, e le mangiatoie erano vuote. Sebbene Sofir fosse un ottimo cuoco, a cena le vivande erano grossolane, e non erano accompagnate dal suo squisito pane di grano, ma solo dalla polenta scura ricavata dai cereali che crescevano lì sulla montagna. Intorno a Sofir e Palizot c’era un’atmosfera di difficoltà o di costrizione; ma non dicevano nulla, direttamente, dei loro magri affari, e Irene si sentì incapace di chieder loro qualcosa. Per loro era ancora «la bambina», gradita e circondata di premure perché non era responsabile delle loro avversità e delle loro preoccupazioni. Perciò, per lei, il soggiorno presso quei due era sempre stato una festa del cuore; e non sapeva come cambiare, anche se avesse voluto. E come sempre, loro parlavano solo di cose senza importanza; l’importante era il loro affetto.
Dopocena, alcuni abitanti della piccola città vennero lì per passare la serata. Sofir si mise al banco del grande stanzone d’ingresso, per servire gli uomini. Le donne raggiunsero Palizot accanto al fuoco, nella comoda stanza accanto alla cucina. Bevevano la birra di produzione locale e chiaccheravano; la vecchia Kadit trangugiò un quarto di pinta d’acquavite di mele. Irene aveva preso un boccale molto piccolo di birra, che era fortissima, e aiutava Palizot a cucire una coperta a mosaico di stoffe. Detestava il cucito; ma quel lavoro insieme a Palizot era un vecchio piacere, una delle cose cui pensava con nostalgia, dall’altra parte della soglia: i pezzetti di lana dai colori delicati, la luce del fuoco e la luce della lampada, il viso lungo, serio e mite di Palizot, le voci sommesse delle donne e la risata sbuffante di Kadit, il brusio e il borbottio degli uomini che parlavano nell’altra stanza, la sonnolenza, il silenzio della grande, vecchia casa e il silenzio delle vie della città, e delle foreste, al di là delle vie.
Quando le lampade venivano accese, e le tende e le imposte chiuse, sembrava sempre che fuori fosse notte. Irene non aprì gli scuretti della finestra della sua camera fino a quando si alzò, dopo aver dormito tutta la notte; e il crepuscolo immutabile sembrava la semioscurità di un mattino d’inverno. Era così che ne parlavano gli abitanti della città: dicevano mattino, mezzogiorno, notte. Imparando la loro lingua, Irene aveva appreso quelle parole, ma non sempre le giungevano indiscusse sulle labbra. Che significato potevano avere, lì? Ma non poteva chiederlo a Palizot o a Sofir, o a Trijiat, la madre di Aduvan, o alle altre donne cui era affezionata; le sue domande non suonavano chiare; tutti ridevano e dicevano: — Il mattino viene prima di mezzogiorno, e la sera viene dopo, bambina! — Erano sempre divertiti dalle sue difficoltà linguistiche, e pronti ad aiutarla, ma non a porre in dubbio le loro certezze. Non c’era nessuno, nella Città della Montagna, che fosse in grado di parlare di quelle cose, tranne il Padrone. Perciò lei aveva deciso di chiedergli perché lì non c’erano né il giorno né la notte, perché il sole non sorgeva mai eppure non si vedevano mai le stelle: com’era possibile? Ma non glielo aveva mai chiesto. Quali erano le parole che significavano sole e stella, nella sua lingua? E se lei avesse detto — Perché qui non è mai notte o giorno? — avrebbe fatto la figura della stupida, perché giorno significava la veglia e notte significava il sonno, e lì si svegliavano e lavoravano e dormivano come tutti quelli dall’altra parte. Irene avrebbe potuto cominciare a spiegare: — Nel posto da dove sono venuta c’è un fuoco rotondo nel cielo. — Ma innanzi tutto, sarebbe stato come il linguaggio di un cavernicolo d’un film, e in secondo luogo (e questa era la cosa più importante) lei non parlava mai del posto da cui veniva. Fin dall’inizio, dalla prima volta che aveva varcato la soglia, la prima volta che aveva attraversato il Primo Fiume, la prima volta che era giunta alla Città della Montagna, aveva compreso che in un luogo non si parlava mai dell’altro. Non dicevi mai da dove venivi, a meno che te lo chiedessero. E nessuno lo chiedeva mai, nell’uno o nell’altro territorio.