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— Ha ucciso Jurmin. Lo ha bruciato vivo. Il suo bastone bruciava ancora quando lo abbiamo trovato. Lui… — Qualsiasi cosa la donna stesse per dire venne soffocata dai singhiozzi.

— Che cosa ha bruciato Jurmin? — chiesi, e, quando non mi rispose, la scrollai; ma questo servì solo a farla piangere maggiormente. — Io non ti conosco, forse? Parla, donna! Tu sei la padrona del Nido dell’Anitra. Portami là!

— Non posso, ho paura. Dammi il tuo braccio, sieur, per favore. Dobbiamo ripararci al chiuso.

— Ottimo. Andremo al Nido dell’Anitra. Non può essere lontano… ed ora che cosa c’è?

— È troppo lontano! — pianse la donna. — Troppo lontano!

C’era qualcosa là nella strada insieme a noi. Non so se non mi ero accorto io del suo avvicinarsi o se si era mantenuta nascosta fino ad allora, certo è che apparve improvvisamente. Ho sentito dire, da gente che ha terrore dei topi, che le è possibile percepire la presenza di quegli animali nel momento in cui entrano in una casa, anche se i ratti non sono visibili; e così era adesso per me. Avvertivo un che di rovente ma privo di calore, e, sebbene l’aria fosse senza odori, avevo la sensazione che non avesse più il potere di sostentare la vita. La donna sembrava non essersi ancora accorta di quella presenza.

— Dicono che abbia bruciato tre persone la notte scorsa, vicino all’arena, ed un’altra stanotte, nei paraggi del Vincula. Ed ora Jurmin. Sta cercando qualcuno… questo è quello che si dice.

— E credo che lo abbia trovato — replicai, rammentando le notule e la creatura che si era aggirata strisciando lungo i muri dell’Anticamera della Casa Assoluta.

Lasciai andare la donna e mi girai ripetutamente su me stesso, cercando di capire dove fosse la creatura. Il calore si fece più intenso, senza però che apparisse alcuna luce, tanto che provai la tentazione di tirar fuori l’Artiglio per servirmi del suo bagliore per vedere. Ma poi, rammentando come esso avesse destato l’essere che dormiva sotto la miniera degli uomini-scimmia, ebbi timore che la sua luce permettesse solo a questo essere… qualsiasi cosa fosse… di localizzarmi. Avevo il dubbio che la spada non mi sarebbe servita contro questa creatura più di quanto mi fosse servita contro le notule, davanti alle quali Jonas ed io eravamo fuggiti nel boschetto di cedri; comunque la sguainai.

Quasi nello stesso istante, si udì un battere di zoccoli ed un grido, mentre due dimarchi giravano un angolo a non più di cento passi di distanza. Se ci fosse stato più tempo, avrei sorriso per il modo in cui le figure dei due dimarchi si attagliavano a quelle che avevo immaginato poco prima, ma il bagliore delle loro lance illuminò qualcosa di scuro, contorto e curvo che si trovava fra me ed i dimarchi.

La creatura si volse verso la fonte di luce, quale che fosse, e parve schiudersi come un fiore, facendosi sempre più alta e sottile con una rapidità tale da non poter quasi essere seguita dall’occhio, fino a trasformarsi in una creatura abbagliante ma somigliante ad un rettile, come quei serpenti multicolori che vengono importati dalle giungle del nord e che sembrano smalti colorati e non rettili. Le cavalcature dei soldati indietreggiarono con strida di terrore, ma uno dei due uomini, mostrando più presenza di spirito di quanta ne avrei avuta io, fece fuoco con la sua lancia contro il cuore della cosa che aveva di fronte. Ci fu un lampo di luce.

La padrona del Nido dell’Anitra si accasciò contro di me, ed io, non desiderando perderla, la sostenni con il braccio libero.

— Credo che quella cosa cerchi il calore corporeo — le dissi. — Dovrebbe attaccare i destrieri. Riusciremo a fuggire.

Nel momento stesso in cui parlai, la cosa si volse verso di noi.

Ho già detto che, vista di dietro, quando si era aperta per fronteggiare i due dimarchi, la cosa sembrava un fiore serpentino. Quell’impressione persistette ora che la vedevo frontalmente, in tutto il suo terrore e la sua gloria, ma ad essa se ne unirono altre due. La prima fu una sensazione di calore estremo ed alieno: la cosa sembrava sempre un rettile, ma un rettile che bruciava in un modo ignoto su Urth, come se qualche aspide del deserto fosse andato a cadere su una palla di neve.

La seconda impressione fu che la cosa agitasse le estremità simili a stracci in un vento che non era fatto d’aria: sembrava ancora un fiore, ma un fiore i cui petali bianchi, giallo pallido e rosso fuoco, erano stati lacerati e rovinati da una mostruosa tempesta generata dal cuore stesso della cosa.

Tutte queste impressioni erano circondate ed intrise di un senso di orrore tale che non sono in grado di descriverlo, e che mi privò di ogni forza e risolutezza, tanto che per un momento non riuscii né a fuggire né ad attaccare. La creatura ed io sembrammo immobilizzati in una matrice di tempo che non aveva nulla a che fare con il passato o il futuro, e che, dal momento che teneva immobili noi che ne eravamo i soli occupanti, non poteva essere alterata da nulla.

Un urlo spezzò l’incantesimo: un secondo gruppo di dimarchi era entrato nella strada, alle nostre spalle, e, avendo avvistato la creatura, aveva lanciato alla carica le cavalcature. Nello spazio di un respiro, essi ci furono intorno, e fu solo per intercessione della Santa Katharine che non venimmo calpestati a morte. Se mai ho dubitato del coraggio dei soldati dell’autarca, allora persi ogni dubbio, poiché entrambe le pattuglie si lanciarono addosso al mostro come mastini su un cervo.

Fu inutile. Ci fu un lampo accecante ed una sensazione di tremendo calore, e, sempre sostenendo la donna semisvenuta, mi misi a correre giù per la strada.

Avevo intenzione di svoltare nel punto da cui erano arrivati i dimarchi, ma, in preda al panico com’ero (e non era solo il mio panico, ma anche quello di Thecla che stava urlando nella mia mente), svoltai troppo presto o troppo tardi, e, invece della ripida discesa verso la città bassa, che mi aspettavo di trovare, finii in un piccolo cortile senza uscita costruito su uno spuntone roccioso che sporgeva dalla collina. Quando mi accorsi dell’errore, la creatura, che era tornata ad essere un’entità bassa e contorta ma emanante un terribile calore, era già all’imboccatura del cortile.

Sotto la luce delle stelle, sarebbe potuta sembrare un vecchio curvo con un cappotto nero, ma non ho mai provato un terrore simile a quello che mi diede la sua vista. Sul retro del cortile c’era uno jacal, più grosso di quello abitato dalla ragazza malata e suo fratello, ma ugualmente costruito con stecchi e fango. Spalancai la porta con un calcio e corsi dentro, attraversando una serie di piccole stanze ripugnanti, passando dalla prima nella seconda e di qui alla terza dove dormivano una mezza dozzina di uomini ed una donna, ed infine in una quarta… ma solo per trovarmi davanti ad una finestra che si affacciava sulla città in modo molto simile a quella delle mie camere, nel Vincula. Quella era la fine, la camera più lontana della casa, sospesa come un nido di rondine su un precipizio che, in quel momento, mi parve senza fondo.

Potei sentire le voci irate delle persone che avevo destato giungere dalla stanza accanto. La porta si spalancò, ma chiunque era venuto per porre fine alla nostra invasione, dovette scorgere il bagliore di Terminus Est, poiché si arrestò con un imprecazione e si volse per allontanarsi. Un momento più tardi, qualcuno urlò, ed io compresi che la creatura di fuoco era entrata nello jacal.

Tentai di far stare eretta la donna, ma lei si accasciò in un mucchio ai miei piedi. Fuori dalla finestra non c’era nulla… il muro di fango terminava qualche cubito più in giù, ed i sostegni del pavimento finivano con esso. In alto, il tetto sporgente e coperto di paglia marcita non offriva alcun appiglio alle mie mani. Mentre lottavo per aggrapparmi ad esso, ci fu un lampo di luce che annientò ogni colore e proiettò ombre scure come la fuliggine, ombre che sembravano fessure nell’intelaiatura del cosmo. Allora compresi che dovevo combattere e morire come erano morti i dimarchi, oppure saltare la finestra, e mi volsi per fronteggiare la cosa che era venuta per uccidermi. Essa si trovava ancora nell’altra stanza, ma potevo vederla attraverso la porta spalancata, e notai che si era nuovamente aperta come aveva fatto in strada. Il corpo semiconsunto di una povera vittima giaceva davanti alla casa sul pavimento di pietra, e, mentre l’osservavo, la cosa parve chinarsi su di essa in un atteggiamento che, ci avrei giurato, sembrava quasi d’indagine. La pelle della vittima si coprì di vesciche e sfrigolò come il grasso di un arrosto, poi cadde. Un momento più tardi, anche le ossa non erano più altro che pallide ceneri che la creatura sparpagliò nell’avanzare.