— Sta’ attento, Severian. C’è qualcosa… Hethor l’ha chiamata una salamandra… che circola in città. Qualsiasi cosa sia, brucia le sue vittime.
Le dissi che avevo molta più paura dei soldati dell’arconte che della salamandra, e me ne andai prima che potesse aggiungere altro. Eppure, mentre salivo su per una stretta strada lungo la riva occidentale, che, così mi avevano assicurato i miei battellieri, mi avrebbe portato in cima alla collina, mi chiesi se non avrei dovuto temere maggiormente il freddo delle montagne e le bestie selvagge che le abitavano, piuttosto che i soldati o la salamandra. Mi domandai anche come fosse riuscito Hethor a seguirmi così a nord, e perché lo avesse fatto. Ma, più che a una qualsiasi di queste cose, pensai a Dorcas, ed a ciò che lei era stata per me ed a ciò che io ero stato per lei. Sarebbe passato molto tempo prima che riuscissi anche solo a vederla di sfuggita, e credo che allora ne fui in qualche modo consapevole. Così come, quando avevo lasciato la Cittadella, mi ero tirato il cappuccio sulla testa perché i passanti non notassero il mio sorriso, ora lo tirai di nuovo, ma per nascondere le lacrime che mi colavano lungo le guance.
Prima di quella notte, avevo visto due volte la riserva d’acqua che riforniva il Vincula, ma mai con l’oscurità. Allora mi era sembrata piccola, una polla non più grande delle fondamenta di una casa e non più profonda di una tomba, mentre ora, alla luce della luna quasi svanita, mi parve quasi un lago, ed altrettanto profonda quanto la cisterna sotto la Torre della Campana.
La cisterna si trovava a meno di cento passi dal muro che difendeva i limiti occidentali di Thrax. C’erano torri su quel muro… una piuttosto vicina alla cisterna… e senza dubbio le guardie avevano ricevuto l’ordine di catturarmi se avessi tentato di fuggire dalla città. Ad intervalli, mentre camminavo lungo la collina, avevo intravisto le sentinelle che pattugliavano il muro; le loro lance non erano accese, ma gli elmi crestati erano nettamente visibili sotto le stelle, e talvolta ne riflettevano debolmente la luce.
Mi accoccolai, tenendomi voltato verso la città e facendo affidamento sul mio manto di fuliggine perché ingannasse le sentinelle. I Portali delle arcate del Capulus, fatti di solide sbarre di ferro, erano stati calati… potevo vedere l’Acis ribollire contro di essi… e questo rimuoveva ogni dubbio: Cyriaca era stata fermata… o, più probabilmente, il suo passaggio era stato notato e riferito. Poteva darsi o meno che Abdiesus facesse consistenti tentativi per ritrovarla, anche se mi sembrava più probabile che le avrebbe permesso di svanire in modo da evitare di attrarre l’attenzione su di lei. Ma, se solo avesse potuto, certo avrebbe fatto catturare me, e mi avrebbe fatto giustiziare da quel traditore delle sue leggi che ero.
Spostai lo sguardo dall’acqua ancora all’acqua, dal corso dell’Acis all’immota cisterna. Conoscevo la parola necessaria ad azionare il portello di scolo, e l’usai: l’antico meccanismo si mosse come manovrato da schiavi fantasmi, e poi anche le acque precedentemente immote presero a scorrere, più rapide dell’Acis che infuriava contro il Capulus. Molto più sotto, i prigionieri avrebbero udito il rombo dell’acqua, e quelli più vicini all’ingresso del condotto avrebbero visto la schiuma bianca del flusso. Fra poco, quelli di loro che erano in piedi si sarebbero trovati con l’acqua alle caviglie, e quelli che stavano dormendo si sarebbero affrettati ad alzarsi in piedi. Ancora un momento, poi tutti si sarebbero trovati immersi fino alla vita, ma, dato che erano incatenati ai loro posti, e che i più deboli sarebbero stati sostenuti dai più forti… speravo che nessuno sarebbe affogato. I clavigeri di guardia all’ingresso avrebbero lasciato il loro posto e si sarebbero affrettati a venire a vedere chi aveva manipolato la cisterna.
Quando tutta l’acqua se ne fu andata, sentii rotolare giù per il pendio i sassi smossi dai piedi dei clavigeri, ed allora richiusi il portello di scolo e mi calai nel passaggio fangoso e quasi verticale in cui l’acqua aveva appena finito di scorrere. La mia avanzata sarebbe stata molto più facile se non avessi dovuto trasportare Terminus Est, perché, per potermi puntellare con la schiena contro un lato di quel condotto curvo e simile ad un camino, fui costretto a sfilarmela dalla spalla, ma nello stesso tempo non potevo permettermi di occupare una mano per reggerla. Alla fine, mi passai la tracolla intorno al collo e lasciai che la lama racchiusa nel fodero mi pendesse sul petto, bilanciandone il peso meglio che potevo. Scivolai due volte, ma, in entrambi i casi, venni salvato da una svolta dello stretto condotto; alla fine, dopo aver atteso tanto tempo che mi sentivo ormai certo che i clavigeri fossero tornati al loro posto, avvistai il rosso bagliore di una torcia ed allora trassi fuori dalla sua sacca l’Artiglio.
Non l’avrei mai più visto fiammeggiare in modo così accecante, e, mentre lo tenevo sollevato nel percorrere la lunga galleria del Vincula, potei solo meravigliarmi che la mia mano non venisse incenerita. Non credo che alcuno dei prigionieri mi vedesse. L’Artiglio li affascinava, come una lanterna accesa nella notte affascina il cervo della foresta. Essi rimasero immobili, i volti barbuti ed emaciati sollevati, le bocche spalancate, le ombre alle loro spalle sottili come incise nel metallo e scure come fuliggine.
All’estremità del tunnel, dove l’acqua fuoriusciva scorrendo nel lungo ed inclinato canale di scolo che la portava al disotto del Capulus, erano collocati i prigionieri più deboli e malati, e fu allora che potei notare con la massima chiarezza la forza che l’Artiglio infondeva loro: uomini e donne che non erano più riusciti ad alzarsi in piedi a memoria del più vecchio clavigero apparivano ora alti e forti. Feci loro un cenno di saluto, anche se sono certo che non lo notarono, quindi riposi l’Artiglio del Conciliatore nella sua piccola sacca e ripiombammo tutti in un’oscurità al confronto della quale la notte di Urth sembrerebbe luminosa come il giorno pieno.
Il passaggio dell’acqua aveva ripulito il canale di scolo, e mi fu più facile discenderlo di quanto lo fosse stato discendere la conduttura della cisterna, perché questo era meno ripido e più stretto, il che mi permise di strisciare rapidamente a testa in avanti. In fondo, c’era una griglia, ma, come avevo già notato nel corso di una delle mie precedenti ispezioni, era quasi completamente divorata dalla ruggine.
XIII
SULLE MONTAGNE
La primavera era terminata e stava iniziando l’estate quando mi allontanai di soppiatto dal Capulus nella luce grigiastra, ma anche d’estate non fa mai caldo sulle montagne, salvo quando il sole picchia su di esse ed è vicino allo zenith. Tuttavia, non osai scendere nelle valli dove si annidavano i villaggi, e, per tutto il giorno, continuai a camminare, con il mio manto di fuliggine avvolto intorno ad una spalla perché sembrasse il più possibile l’abbigliamento di un eclettico. Smontai anche Terminus Est e la rimontai senza l’elsa, in modo che, vista da lontano, la spada nel fodero potesse essere scambiata per un bastone.
A mezzogiorno, il terreno su cui stavo avanzando era ormai tutto di pietra, e così diseguale da costringermi ad arrampicarmi più che a camminare; due volte scorsi sotto di me il bagliore di un’armatura, e, guardando giù, vidi drappelli di dimarchi galoppare lungo sentieri tanto pericolosi che la maggior parte delle persone non li avrebbero percorsi neppure a piedi, i loro mantelli scarlatti agitati dal vento. Non trovai piante commestibili e non incontrai altra selvaggina che non fossero uccelli da preda che volavano alti; del resto anche se avessi trovato qualcosa, non avrei avuto alcuna possibilità di abbatterla con la mia spada, e non avevo altre armi.
Tutto questo può sembrare un quadro piuttosto disperato, ma la verità è che io ero eccitato dal vasto panorama montano, lo scenario dell’impero dell’aria. Da bambini, non siamo in grado di apprezzare adeguatamente simili viste perché, non avendo ancora conservato nella nostra immaginazione spettacoli del genere, con le emozioni e le circostanze che li accompagnano, li percepiamo senza profondità psichica. Io osservavo adesso quelle vette coronate di nubi avendo nella mente il ricordo di Nessus come appariva dalla punta conica della nostra Torre di Matachin, e quello di Thrax come l’avevo vista dai bastioni del Castello di Acies, e, per quanto misera fosse la mia situazione, fui sul punto di svenire dal piacere.