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Ora che quell’antico desiderio si era riacceso, sebbene il passare degli anni lo avesse fatto divenire ancora più assurdo (perché certo il piccolo apprendista che ero stato un tempo aveva avuto più possibilità di viaggiare fra le stelle di quante ne avesse il fuorilegge fuoricasta che ero divenuto), si era fatto molto più forte e deciso, perché nel frattempo avevo imparato quanto fosse stupido limitare al possibile i propri desideri. Sarei andato, ero deciso a farlo. Per il resto della mia vita sarei stato incessantemente pronto a cogliere ogni opportunità in quel senso, per quanto minima. Già una volta mi ero trovato da solo in presenza degli specchi di Padre Inire, e Jonas, molto più saggio di me, si era gettato senza esitazione nella marea di fotoni. Chi poteva dire che non sarei più riuscito a trovarmi da solo davanti a quegli specchi?

Con quel pensiero in mente, mi tolsi il mantello dalla testa, deciso a guardare di nuovo le stelle, e scoprii che la luce del sole era trapelata fra le cime delle montagne, attenuando il brillio delle stelle fino a farle sembrare insignificanti. I volti titanici che incombevano su di me erano ora soltanto quelli dei governanti di Urth da lungo tempo deceduti, intagliati nei monti e resi sparuti dal tempo, le guance incavate dalle valanghe.

Mi alzai in piedi e mi stiracchiai. Era evidente che non potevo trascorrere quel giorno senza mangiare, come avevo trascorso la notte precedente, ed era ancor più evidente che non avrei potuto passare all’addiaccio la prossima notte, riparato solo dal mio mantello. Pertanto, pur non osando ancora discendere nelle valli popolate, predisposi il mio cammino in modo che mi portasse verso le alte foreste che potevo vedere sui pendii sottostanti il punto in cui mi trovavo.

Impiegai la maggior parte della mattinata a raggiungere le foreste, e, quando finalmente arrivai alle betulle nane che ne costituivano l’avanguardia, notai che la foresta, pur essendo situata molto più in pendenza di quanto mi fosse parso, conteneva, verso il centro, dove il suolo era più pianeggiante e quindi il terriccio più ricco, alberi di considerevole altezza, così ravvicinati che gli spazi fra i vari tronchi erano di poco più larghi dei tronchi stessi. Quelle piante non avevano, naturalmente, le foglie lucide caratteristiche degli alberi delle foreste tropicali che ci eravamo lasciati alle spalle sulla riva meridionale del Cephissus. Queste erano per lo più conifere dall’irta corteccia, alberi alti e dritti che si allontanavano dalla montagna e mostravano chiaramente sulle loro superfici le ferite lasciate dalle battaglie sostenute contro il vento ed i lampi.

Ero mosso dalla speranza di riuscire ad imbattermi in qualche taglialegna o cacciatore, dai quali avrei potuto pretendere quell’ospitalità che tutti (almeno così ama credere la gente di città) si sentono obbligati ad offrire in terre selvagge. Per parecchio tempo, tuttavia, quella mia speranza venne delusa; mi soffermai ripetutamente ad ascoltare, nella speranza di udire il suono di un’ascia o un abbaiare di cani; ma c’era soltanto silenzio, ed in effetti, sebbene quegli alberi avrebbero potuto fornire una gran quantità di legname, non notai alcun segno che indicasse che venivano tagliati.

Alla fine, m’imbattei in una piccola sorgente di acqua gelida che serpeggiava fra gli alberi, fiancheggiata da tenere felci nane e da erba sottile come capelli. Bevvi a volontà, e, per forse mezzo turno di guardia seguii il suo corso giù per il pendio attraverso una successione di cascate in miniatura e di laghetti montani, rimanendo meravigliato, come indubbiamente era accaduto ad altri nel corso d’innumerevoli chiliadi, nel notare che il rivoletto s’ingrandiva, pur non avendo raccolto le acque di alcun visibile affluente.

Alla fine, il ruscello si era ingrossato al punto di minacciare anche gli alberi più grossi, ed io vidi più avanti il tronco di uno di essi, largo almeno quattro cubiti, che era caduto attraverso il ruscello che ne aveva minato le radici. Mi avvicinai senza nessuna precauzione, perché non c’era alcun rumore che mi potesse mettere in guardia, e, sostenendomi ad uno spuntone, balzai sul tronco con un volteggio.

Per poco non precipitai in un oceano d’aria. I bastioni del Castello di Acies, dall’alto dei quali avevo scorto Dorcas in preda alla disperazione, sembravano la semplice balaustra di un balcone se paragonati all’altezza cui ora mi trovavo, e certo il Muro di Nessus è la sola opera dell’uomo che possa rivaleggiare con quel precipizio. Il ruscello cadeva silenzioso in un golfo d’aria che lo trasformava in spuma, in modo da farlo svanire in un arcobaleno. Gli alberi sottostanti parevano giocattoli costruiti da un padre indulgente per il suo bambino, e, al loro limitare, con un piccolo campo alle spalle, vidi una casa non più grande di un ciottolo, con uno sbuffo di fumo, simile allo spettro del nastro d’acqua che era precipitato e morto, che si levava per poi scomparire anch’esso nel nulla.

All’inizio, la discesa dall’altura mi parve fin troppo semplice, poiché la spinta che mi ero dato mi aveva quasi portato al di là del tronco caduto, che giaceva a sua volta per metà oltre l’orlo del precipizio; quando ebbi recuperato l’equilibrio, tuttavia, la discesa mi parve impossibile. La superficie di roccia era liscia per vasti tratti, per quel che potevo vedere, e, anche se con una corda avrei potuto calarmi giù e raggiungere così la casa prima di notte, io non avevo una corda con me, e poi non sarebbe stato molto saggio affidarsi ad una fune abbastanza lunga da superare quel baratro.

Dedicai comunque qualche tempo all’esplorazione della vetta della collina, ed alla fine scoprii un sentiero che, per quanto molto stretto e ripido, mostrava inconfondibili segni di uso corrente. Non riferirò i dettagli della discesa, che in realtà hanno ben poco a che fare con la mia storia, anche se, come si può immaginare, in quel momento richiesero tutta la mia concentrazione. Imparai ben presto a guardare soltanto il sentiero e la parete dell’altura, alla mia destra o a sinistra, a seconda delle svolte della pista, che, per la maggior parte della sua lunghezza, era una ripida discesa larga un cubito ed anche meno. Di tanto in tanto, il sentiero si trasformava in una serie di scalini tagliati nella viva roccia, ed in un punto c’erano solo rientranze per le mani ed i piedi, che discesi come fossero stati una scaletta. Quegli appigli erano molto più comodi, riflettei, se considerati obiettivamente, delle crepe cui mi ero aggrappato di notte all’imboccatura della miniera degli uomini-scimmia, e stavolta mi ero almeno risparmiato il trauma di essere preso di mira da quadrelle di balestre; ma l’altitudine era cento volte maggiore, e faceva girare la testa.

Forse perché ero tanto concentrato nella mia faticosa discesa da essere costretto ad ignorare il precipizio sull’altro lato, divenni ben presto acutamente conscio della vasta e sezionata fetta di crosta del mondo lungo la quale stavo strisciando. Nei tempi antichi… così avevo letto una volta su uno dei testi consegnatimi dal Maestro Palaemon, la terra di Urth era viva, e gli spostamenti del suo cuore vivo facevano eruttare le pianure come fontane e talvolta spalancavano di notte il mare fra isole che fino al precedente tramonto erano state un unico continente. Ora si dice che quel cuore sia morto e si stia raffreddando e riducendo all’interno del suo involucro di pietra come il corpo di una vecchia, in una di quelle case abbandonate che Dorcas mi aveva descritto, che si fosse mummificato nell’aria immota e secca. Così, si dice, sta accadendo ad Urth, e qui una metà della montagna si era staccata dalla sua controparte ed era precipitata ad almeno una lega di distanza.

XIV

LA CASA DELLA VEDOVA

A Saltus, dove Jonas ed io rimanemmo per qualche giorno, e dove ebbi modo di eseguire la seconda e la terza decapitazione pubblica della mia carriera, i minatori derubano il suolo dei metalli, della pietra per costruire e perfino di artefatti prodotti da civiltà dimenticate da chiliadi ancor prima che sorgesse il Muro di Nessus. I minatori fanno questo praticando alcuni pozzi nei fianchi delle colline e scendendo fino a che non trovano un ricco strato di rovine o perfino (se sono particolarmente fortunati) un edificio che abbia conservato intatta una parte della sua struttura e che possa fungere da galleria.