Quello che a Saltus veniva fatto con tanta difficoltà avrebbe potuto essere realizzato quasi senza sforzo in quella collina lungo la quale stavo scendendo. Il passato giaceva accanto alla mia spalla, indifeso e nudo come lo sono tutte le cose morte, come se il tempo stesso fosse stato sventrato dalla caduta della montagna. In certi punti, ossa fossili sporgevano dalla superficie, ossa di possenti animali e di uomini, e la foresta aveva lasciato là anche i suoi morti, monconi e rami che il tempo aveva tramutato in pietra, tanto che, nel discendere, mi chiesi se è possibile che Urth non sia, come noi presumiamo, più vecchia dei suoi figli, gli alberi, ma il contrario, e m’immaginai gli alberi che crescevano nel vuoto davanti al sole, uno aggrappato all’altro per mezzo delle radici intrecciate e dei rami, fino a che alla fine il loro accumularsi si era trasformato nella nostra Urth ed essi erano divenuti un semplice ornamento della sua superficie.
Più in profondità, giacevano le costruzioni e gli apparecchi dell’umanità (e forse anche di altre razze, perché parecchie storie narrate nel libro marrone che portavo con me sembravano sottintendere che una volta fossero esistite qui colonie di quegli esseri che noi chiamiamo cacogeni, anche se essi sono in effetti una miriade di razze, ciascuna distinta dalle altre come la nostra.) Vidi metalli che erano verdi e blu nello stesso modo in cui si dice che il rame è rosso o l’argento bianco, metalli colorati lavorati in un modo tanto strano che non potevo capire con certezza se la loro forma era stata dettata da intenti artistici o se essi avevano fatto parte di strani meccanismi, anche se era possibile che per gli appartenenti a quegli strani popoli non esistesse distinzione fra le due cose.
Ad un certo punto, quando mi trovavo circa a metà della discesa, la linea del crollo venne a coincidere con la parete piastrellata di un qualche grande edificio, cosicché il sentiero che stavo percorrendo dovette attraversarla. Non riuscii mai a capire che cosa fosse il disegno tracciato con le piastrelle, perché mentre scendevo ero troppo vicino ad esso per distinguerlo con chiarezza, e quando finalmente arrivai in basso, l’edificio era ormai troppo in alto per essere visibile, perso nella nebbiolina generata dalla cascatella. Eppure, mentre camminavo, vidi quel disegno come un insetto può vedere la superficie di un ritratto su cui sta strisciando. Le piastrelle avevano molte forme, anche se aderivano così bene le une alle altre, ed inizialmente pensai che rappresentassero uccelli, lucertole, pesci ed altre creature simili, anche se ora sento che non era così, e che esse raffiguravano invece forme geometriche che io non potevo comprendere, diagrammi tanto complessi che in essi sembravano apparire forme viventi, così come le forme dei veri animali appaiono dall’intricata geometria delle molecole.
Comunque, quelle forme avevano ben poca connessione con la pittura o con il disegno. Linee di colore le attraversavano, e, anche se esse dovevano essere state consolidate nella superficie delle piastrelle parecchi eoni prima, sembrava che fossero state tracciate appena pochi secondi prima dal pennello di un qualche titanico artista. Le tonalità più usate erano il berillio ed il bianco, ma, sebbene mi arrestassi parecchie volte e mi sforzassi di capire cosa poteva essere rappresentato (una scritta, un volto, un semplice disegno decorativo di linee ed angoli, una riproduzione di ramoscelli intrecciati), non vi riuscii mai. Forse quel disegno rappresentava ciascuna di quelle cose, o forse nessuna, a seconda della posizione da cui lo si osservava e della predisposizione mentale dell’osservatore.
Una volta superato quell’enigmatico muro, la discesa si fece più facile. Non fui più costretto a calarmi lungo un tratto quasi verticale, e, sebbene ci fossero altre file di scalini, essi non erano più stretti e ripidi come in precedenza. Raggiunsi il fondo prima di quanto mi sarei aspettato, e fissai il sentiero lungo il quale ero disceso, con meraviglia, quasi non l’avessi mai visto prima… ed in realtà, potevo vedere diversi punti in cui esso sembrava interrotto dal crollo di intere sezioni di muro, in modo da apparire invalicabile.
La casa che avevo avvistato tanto chiaramente dall’alto era adesso invisibile, nascosta fra gli alberi, ma il fumo del camino si levava ancora nel cielo. Mi aprii il passo attraverso una foresta meno in pendenza di quella attraversata dal ruscello. Gli alberi scuri sembravano più vecchi, ed erano assenti le grandi felci del meridione; anzi, devo dire che non le ho mai viste a nord della Casa Assoluta, fatta eccezione per quelle coltivate nel giardino di Abdiesus. C’erano però violette selvatiche, dalle foglie lucenti e dai fiori dell’esatto colore degli occhi della povera Thecla, che crescevano fra le radici degli alberi, e muschio che ricordava uno spesso velluto verde, cosicché sembrava che il suolo fosse tappezzato e gli alberi drappeggiati di quel costoso tessuto.
Qualche tempo prima di avvistare la casa o di percepire qualsiasi altro segno di presenza umana, udii l’abbaiare di un cane. A quel suono, il silenzio e la meraviglia creati dagli alberi si dissolsero, rimanendo presenti ma infinitamente più distanti. Percepii anche una qualche misteriosa forma di vita, antica e strana, ma al contempo familiare, che, dopo essere stata sul punto di rivelarsi a me, si era tratta indietro come una qualche persona molto importante, forse un maestro dei musicisti, che io avessi cercato per anni di attirare nella mia casa ma che, al momento di bussare, avesse udito la voce di un altro ospite a lui sgradito, e si fosse allontanato per non tornare mai più.
Eppure com’era confortevole quel suono! Per quasi due interi e lunghi giorni, mi ero trovato assolutamente solo, dapprima su erti terreni sassosi, poi immerso nella gelida bellezza delle stelle, ed infine circondato dal sommesso respiro degli antichi alberi. Ora quel rumore aspro e familiare mi fece pensare ancora una volta alle comodità umane… non solo pensare, ma anche immaginarle in modo tanto vivido che mi parve di sperimentarle di già. Sapevo che, quando lo avessi visto, il cane sarebbe stato simile a Triskele, ed infatti lo era, con quattro zampe invece di tre, con il cranio un po’ più lungo e stretto ed il pelo dal colore più marrone che leonino, ma con la stessa lingua penzolante, coda dondolante ed occhi danzanti. Il cane iniziò una dichiarazione di guerra, ma la sospese non appena gli ebbi parlato, e ben presto mi offrì la testa perché lo grattassi dietro gli orecchi, cosicché raggiunsi la radura in cui sorgeva la casa con la bestiola che mi saltellava intorno.
Le mura erano di pietra, ed appena più alte della mia testa, il tetto di paglia era ripido come mi era parso, e punteggiato di pietre piatte che trattenevano la paglia contro la furia del vento. In breve, quella era la casa di uno di quei paesani pionieri che sono la gloria e la disperazione della nostra Repubblica, che magari un anno producevano un sovrappiù del cibo che serviva a nutrire la popolazione di Nessus, ma che l’anno dopo dovevano essere nutriti essi stessi perché non morissero di fame.
Quando davanti ad una porta non esiste un sentiero pavimentato, si può giudicare la frequenza con cui viene varcata la soglia, in un senso o nell’altro, dalla quantità di erba che cresce sul suolo calpestato. Qui c’era solo un cerchietto di polvere grande quanto un fazzoletto davanti allo scalino di pietra e, quando lo notai, pensai che avrei potuto spaventare la persona che viveva nella capanna (perché supposi che doveva essercene una sola), se fossi entrato senza annunciarmi, per cui, dal momento che il cane aveva smesso già da un pezzo di abbaiare, mi arrestai al margine della radura e gridai un saluto.