Passò un anno, ed alla fine di esso Rospo aveva imparato a stare in piedi ed a muovere qualche passo. Una notte, il taglialegna e sua moglie erano seduti presso il loro piccolo fuoco, in una radura, nelle terre selvagge, e, mentre la donna preparava la cena, Rospo si avvicinò al fuoco per scaldarsi alla fiamma, poiché era nudo. Allora il taglialegna, che era un uomo rude ma gentile, gli chiese:
— Ti piace?
E, sebbene non avesse mai parlato prima di allora, Rospo annuì e rispose:
— Il fiore rosso.
Si dice che, a quelle parole, Inizio d’Estate si agitasse nel suo letto, sulla cima della montagna al di là delle spiagge di Urth.
Il taglialegna e sua moglie rimasero stupefatti, ma non ebbero il tempo di discutere fra loro dell’accaduto, né di cercare d’indurre Rospo a parlare ancora, e neppure di pensare a quello che avrebbero raccontato al pastore ed a sua moglie quando li avessero incontrati di nuovo, perché in quel momento nella radura risuonò un rumore terribile… coloro che lo hanno udito dicono che sia il suono più terrificante dell’intero mondo di Urth. Sono così pochi quelli che lo hanno udito e sono sopravvissuti, che esso non ha nome, ma è qualcosa come un ronzio di api o come il verso che potrebbe emettere un gatto che fosse più grosso di una mucca, o come i suoni che i ventriloqui imparano per prima cosa ad emettere, una specie di ronzio della gola che sembra provenire da ogni parte contemporaneamente. Quello era il canto che uno smilodonte canta quando è vicino alla sua preda, quel canto che spaventa anche i mastodonti al punto d’indurii a caricare nella direzione sbagliata, cosicché vengono colpiti alle spalle.
Certamente, il Pancreatore conosce tutti i misteri. Egli ha pronunciato quella lunga parola che è il nostro universo, e ben poche cose accadono che non facciano parte di quella parola. Per sua volontà, quindi, non lontano dal fuoco sorgeva una collinetta, nella quale era stata costruita una tomba nei giorni antichi; e, anche se il povero taglialegna e sua moglie non lo sapevano, due lupi vi avevano eretto la loro casa, una costruzione dal tetto basso e dalle pareti spesse, con gallerie illuminate da lampade verdi che scendevano fra i memoriali rovinati e le urne rotte, una casa, cioè, adatta ai gusti dei lupi. Là, il lupo sedeva, intento a succhiare il femore di un coryphodone, e la lupa, sua moglie, si teneva i piccoli stretti al seno.
Essi udirono giungere da vicino il canto dello smilodonte, e lo maledirono nel Grigio Linguaggio, come sanno maledire i lupi, poiché nessuna bestia obbediente alle leggi caccia vicino alla casa di un altro animale che viva di caccia, ed i lupi sono in buoni termini con la luna.
Quando ebbe terminato la maledizione, la lupa disse:
— Che preda può esservi che il Macellaio, quello stupido assassino di cavalli di fiume, sia riuscito a trovare, quando tu, marito mio, che sei in grado di fiutare una lucertola che corra su una montagna al di là di Urth, ti sei accontentato di leccare un osso spolpato?
— Io non divoro carogne — replicò brevemente il lupo, — né estraggo vermi dalla terra o cerco rospi nelle polle.
— Né il Macellaio canta per simili prede — replicò sua moglie.
Allora il lupo sollevò il capo e fiutò l’aria.
— Egli caccia il figlio di Meschia e la figlia di Meschiane, e tu sai che nessun bene può venire da carne simile.
A queste parole sua moglie annuì, perché sapeva che il figlio di Meschia era l’unica creatura vivente che uccidesse tutti e chiunque quando veniva ucciso uno della sua specie. Questo perché il Pancreatore gli aveva dato Urth e lui aveva rifiutato il dono.
La canzone finì, ed il Macellaio ruggì tanto da far cadere le foglie dagli alberi, quindi strillò, perché le maledizioni dei lupi sono potenti, fintanto che splende la luna.
— Come ha fatto a farsi male? — chiese la lupa, leccando il volto di una delle sue figlie.
Il lupo fiutò ancora l’aria.
— Carne bruciata! È balzato proprio dentro il loro fuoco.
E lui e sua moglie risero, silenziosamente, come ridono i lupi, mostrando tutti i denti, mentre i loro orecchi erano tesi come tende nel deserto, poiché stavano ascoltando il Macellaio che annaspava fra i cespugli in cerca della sua preda.
Ora, la porta della casa dei lupi era aperta, poiché, quando entrambi i due lupi adulti erano in casa, non importava loro chi potesse entrarvi, e quelli che ne uscivano erano meno di quelli che erano entrati. La soglia era stata illuminata dalla luna piena, poiché la luce della luna è sempre la benvenuta nelle case dei lupi, ma ora si oscurò: un bambino era fermo là, forse un po’ timoroso dell’oscurità, ma attratto dal forte odore del latte. Il lupo ringhiò, ma la lupa chiamò, con la sua voce più materna:
— Vieni, piccolo figlio di Meschia, qui puoi bere e stare al caldo e nel pulito. Qui ci sono i compagni di gioco dagli occhi vivaci e dal piede lesto, i migliori del mondo.
Udendo questo, il bimbo entrò, e la lupa, deposti a terra i suoi piccoli ormai sazi, lo nutrì al suo seno.
— Di che utilità può essere una simile creatura? — chiese il lupo.
— E puoi chiedermi questo quando sei costretto a rosicchiare l’osso di una preda dell’ultima luna? — rise la lupa. — Non ti ricordi quando la guerra infuriava qui intorno, e gli eserciti del Principe Vento di Primavera percorrevano queste terre? Allora, nessun figlio di Meschia ci dava la caccia, perché si combattevano gli uni con gli altri. E dopo le loro battaglie noi uscivamo fuori, tu ed io, e tutto il Senato dei Lupi, e perfino il Macellaio, e Colui che Ride, ed il Nero Uccisore, e ci muovevamo fra morti e morenti, scegliendo quello che più ci andava.
— Questo è vero — ammise il lupo. — Il Principe Vento di Primavera ha fatto grandi cose per noi. Ma questo cucciolo di Meschia non è lui.
La lupa si limitò a sorridere e disse:
— Fiuto il fumo della battaglia nel pelo della sua testa e sulla sua pelle. — (Era il fumo del Fiore Rosso) — Tu ed io saremo polvere, quando la prima colonna di guerrieri uscirà dalle mura della sua città, ma da quella prima colonna ne deriveranno mille altre, che nutriranno i nostri figli, ed i loro figli ed i figli dei loro figli.
A quelle parole, il lupo annuì, perché sapeva che la lupa era più saggia di lui, e che, se lui era in grado di fiutare cose che si trovavano al di là delle spiagge di Urth, la lupa era in grado di vedere i giorni che si celavano al di là delle piogge dell’anno successivo.
— Lo chiamerò Rospo — disse la lupa, — perché invero, come tu hai detto, sovente il Macellaio si accontenta di dar la caccia ai rospi, marito mio. — La lupa credeva di aver parlato così per fare un complimento a suo marito, che aveva così prontamente ceduto ai suoi desideri, ma la verità è che il sangue del popolo che abita la cima montana al di là di Urth scorreva nelle vene di Rospo, e che i nomi di coloro che hanno quel sangue non possono rimanere celati a lungo.
All’esterno, risuonò una selvaggia risata: era la voce di Colui che Ride, che chiamava:
— È là, Signore! Là, là, là! Qui, qui, qui è la traccia! È entrato da quella porta!
— Vedi — osservò il lupo, — cosa succede a nominare il male? Nominare è chiamare, questa è la legge. — E, presa la spada, ne provò il filo.
La porta si oscurò nuovamente; era una porta stretta, perché solo le case degli sciocchi ed i templi hanno porte grandi, ed i lupi non sono sciocchi. Rospo l’aveva riempita quasi tutta, ed ora il Macellaio l’ostruiva interamente, voltando le spalle per entrare e chinando la grossa testa. Poiché i muri erano tanto spessi, la porta era simile ad un passaggio.
— Che cosa cerchi? — chiese il lupo, leccando il piatto della spada.
— Ciò che è mio, e solo quello — replicò il Macellaio. Gli smilodonti combattono con un coltello ricurvo in ciascuna mano, ed egli era molto più grosso del lupo, ma non gli andava l’idea di dover lottare con lui in uno spazio tanto ristretto…