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Sono certo che non dormii, ma mi servii della mia capacità di ricordare il passato, e così, almeno spiritualmente, lasciai quel luogo oscuro. Per qualche tempo, osservai gli animali nella necropoli al di là del muro della Cittadella, come avevo fatto da ragazzo. Vidi le oche tracciare punte di freccia nel cielo e. vidi volpi e conigli andare e venire, mentre correvano ancora una volta per me sull’erba o lasciavano le loro tracce sulla neve. Vidi Triskele giacere, apparentemente morto, fra i rifiuti dietro la Torre dell’Orso, e lo vidi rabbrividire e sollevare la testa per leccarmi la mano. Sedetti con Thecla nella sua piccola cella, dove leggevamo ad alta voce l’uno per l’altra e ci fermavamo per discutere su quello che avevamo letto.

— Il mondo si sta fermando come un orologio — disse Thecla. — L’Increato è morto, e chi lo ricreerà? Chi lo potrebbe?

— Certo si suppone che gli orologi si fermino quando il loro padrone muore.

— Questa è superstizione. — Mi tolse il libro dalle mani in modo da poterle tenere fra le sue, che erano affusolate e molto fredde. — Quando il loro proprietario è sul letto di morte, nessuno versa acqua fresca nel meccanismo. Quando egli muore, le infermiere guardano l’orologio per annotare l’ora della morte, e più tardi scoprono che l’orologio è fermo e segna ancora la stessa ora.

— Stai dicendo che l’orologio si ferma prima del suo proprietario — replicai. — Quindi, se l’universo si sta fermando, questo non significa che l’Increato sia morto… ma solo che non è mai esistito.

— Ma lui è malato. Guardati intorno, guarda questo posto e le torri sopra di te. Sai che non lo hai mai fatto, Severian?

— Egli potrebbe ancora chiedere a qualcun altro di caricare di nuovo il meccanismo — suggerii, e poi, rendendomi conto di quel che avevo detto, arrossii.

— Non ti avevo più visto arrossire così — rispose Thecla, — da quando mi sono spogliata la prima volta per te. Ho posato le tue mani sui miei seni, e tu sei diventato rosso come una ciliegia. Te lo ricordi? Chiedere a qualcuno di ricaricarlo? Dov’è ora il giovane ateista?

— Confuso — replicai, posandole la mano sulla coscia, — come lo era allora, alla presenza della divinità.

— Non mi credi, quindi? Penso che tu abbia ragione. Io devo essere ciò di cui sognate voi giovani torturatori… una bella prigioniera, non ancora mutilata, che si rivolge a voi per placare la sua bramosia.

— Sogni quali sei tu giacciono al di là della mia portata — replicai, nel tentativo di essere galante.

— Certamente no, visto che ora io sono in tuo potere.

Qualcosa era nella cella con noi. Guardai verso la porta sbarrata, e verso la lampada di Techla, con il riflettore d’argento, poi in tutti gli angoli. La cella si fece più scura, e Thecla e perfino io stesso svanimmo con la luce, ma la cosa che aveva invaso i miei ricordi non svanì.

— Chi sei — chiesi, — e che cosa vuoi da noi?

— Sai bene chi siamo noi, e noi sappiamo chi sei tu. — Era una voce fredda e, credo, la più autorevole che avessi udito. Neanche l’Autarca parlava in quel modo.

— Chi sono io, allora?

— Severian di Nessus, littore di Thrax.

— Io sono Severian di Nessus — replicai, — ma non sono più il littore di Thrax.

— Così vorresti farci credere.

Seguì un lungo silenzio, ed alla fine compresi che il mio interlocutore non mi avrebbe fatto domande ma mi avrebbe piuttosto costretto, se desideravo la libertà, a spiegargli la mia situazione. Avevo una gran voglia di mettergli le mani addosso… non poteva distare da me più di pochi cubiti… ma sapevo che, molto probabilmente, doveva essere munito di artigli simili a quelli che mi avevano mostrato gli uomini sul sentiero. Volevo anche, e già da qualche tempo, estrarre l’Artiglio dalla sua custodia di cuoio, anche se nessun atto avrebbe potuto essere più stupido di quello.

— L’arconte di Thrax voleva che uccidessi una certa donna — spiegai, — ed io invece l’ho liberata, e sono dovuto fuggire dalla città.

— Superando per magia le postazioni dei soldati.

Avevo sempre ritenuto che i cosiddetti operatori di magie fossero ciarlatani; ora, qualcosa nel tono del mio interrogatore mi suggerì che, nel momento in cui cercavano d’ingannare gli altri, essi ingannavano anche se stessi. C’era derisione nel suo tono, ma diretta a me, non alla magia.

— Forse — replicai. — Che ne sai dei miei poteri?

— Che non sono sufficienti a liberarti da questo luogo.

— Non ho ancora tentato di liberarmi, eppure mi sono già liberato.

— Tu non eri libero! — La voce era turbata. — Hai solo portato qui lo spirito della donna!

Lasciai fuoriuscire il fiato tentando di non far udire il mio sospiro. Nell’Anticamera della Casa Assoluta, una ragazzina mi aveva una volta scambiato per una donna alta, quando Thecla aveva per un momento distorto la mia personalità. Ora sembrava chiaro che la ricordata Thecla doveva aver parlato tramite la mia bocca.

— Allora è certo che sono un negromante — osservai, — che può controllare gli spiriti dei morti. Perché quella donna è morta.

— Ci hai detto di averla liberata.

— Ho liberato un’altra donna, che somigliava solo leggermente alla prima. Cos’avete fatto a mio figlio?

— Lui non ti chiama padre.

— Soffre di allucinazioni — replicai.

Non ebbi risposta. Dopo qualche tempo, mi alzai e feci scorrere ancora una volta le mani sulle pareti della mia prigione sotterranea: erano di terra compatta, come prima. Non avevo visto alcuna luce né udito alcun suono, ma mi sembrava che sarebbe stato possibile coprire l’apertura con qualche struttura portatile, per non far trapelare la luce del giorno, e che, se era ben costruito, il battente poteva essere sollevato in silenzio. Salii il primo scalino, che scricchiolò sotto il mio peso.

Salii un altro scalino, poi un altro, ed ognuno di essi scricchiolò. Poi tentai di satire il quarto, e mi sentii pungere la testa e le spalle da punte di daghe, ed un rivoletto di sangue mi scese sul collo dall’orecchio sinistro.

Mi ritirai sul terzo scalino ed annaspai, cercando con le mani: la cosa che mi era parsa una stuoia lacera quando ero entrato nella stanza sotterranea, era in effetti formata da una ventina e più di schegge acuminate di bambù, fissate al passaggio in modo che avessero le punte rivolte verso il basso. Ero disceso con facilità, perché il mio corpo le aveva spinte da un lato, ma ora m’impedivano di salire, così come gli arpioni su una lancia da pesca impediscono al pesce di fuggire. Afferrai uno dei bambù con le mani e tentai di spezzarlo, ma, anche se forse ci sarei riuscito usando entrambe le mani, con una sola era impossibile. Se avessi avuto luce e tempo a disposizione, avrei forse potuto aprirmi un varco ma non osavo correre un simile rischio, per cui balzai nuovamente a terra.

Un altro giro della stanza non mi disse nulla di più di quanto già sapessi, eppure mi sembrava impossibile che il mio interrogatore fosse risalito su per la scaletta senza fare alcun rumore, anche ammettendo che conoscesse un trucco per superare i bambù. Tastai tutto il pavimento stando in ginocchio, ma non trovai nulla di nuovo.

Tentai allora di smuovere la scaletta, ma era fissata. Allora, cominciando dall’angolo più vicino alla scala, saltai e toccai il muro più in alto che potei; quindi, spostandomi di lato di mezzo passo, saltai ancora. Ero arrivato in un punto che doveva trovarsi più o meno dalla parte opposta a dove ero seduto io in precedenza, quando lo trovai: un buco rettangolare alto forse un cubito e largo due, il cui bordo inferiore si trovava poco più in alto della mia testa. Il mio interrogatore poteva essersi calato, senza far rumore, di là con un corda ed essere andato via nello stesso modo, ma più probabilmente aveva soltanto sporto la testa e le spalle dall’apertura, in modo che la sua voce suonasse come se lui fosse stato davvero nella stanza con me. Afferrai meglio che potevo il bordo del buco e mi tirai su.