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Per un momento, Decuman interruppe la sua cantilena ed aprì gli occhi.

— Non hai più paura? — Il piccolo Severian si strinse maggiormente a me.

— No. Si vedeva che avevo paura? — chiesi, ed egli annuì con aria solenne.

— Quello che stavo per dirti è che l’esistenza di quella reliquia sembra aver suggerito ad alcuni popoli l’idea che il Conciliatore usasse Artigli come armi. Ho spesso dubitato della sua esistenza, ma se una simile persona è mai vissuta davvero, sono certo che ha usato le sue armi in prevalenza contro se stesso. Capisci cosa sto dicendo?

Dubito che capisse, ma annuì ugualmente.

— Quando eravamo sul sentiero, abbiamo trovato un incantesimo contro la venuta del Nuovo Sole. Gli uomini colorati come alberi, che suppongo siano quelli che hanno superato questa prova, usano artigli d’acciaio. Io credo che vogliano ritardare l’avvento del Nuoyo Sole in modo da poter prendere il suo posto e forse usurpare i suoi poteri. Se…

All’esterno, qualcuno urlò.

XXII

LE PENDICI DELLA MONTAGNA

La mia risata aveva infranto la concentrazione di Decuman, anche se solo per un attimo, ma il grido proveniente dall’esterno non ebbe questo effetto. La rete che era caduta in pezzi quando avevo stretto l’Artiglio, si stava ricreando, più lentamente, ma con maglie più strette.

Si ha sempre la tentazione di dire che certi sentimenti sono indescrivibili, ma raramente è vero. Ebbi l’impressione di essere sospeso, nudo, fra due soli senzienti, ed ero in qualche modo consapevole che quei soli erano i due emisferi del cervello di Decuman. Ero immerso nella luce, ma essa era il bagliore di una fornace, che mi consumava ed in qualche modo m’immobilizzava. Sotto quella luce, nulla mi sembrava importante, ed io stesso mi sentivo estremamente minuscolo e disprezzabile.

In questo senso, la mia concentrazione rimase intatta, anche se ero vagamente consapevole del fatto che quell’urlo segnalava una possibile opportunità a mio favore. Molto più tardi di quanto avrei dovuto, forse dopo aver tratto una dozzina di respiri, mi alzai barcollando in piedi.

Qualcosa stava valicando la porta, ed il mio primo pensiero, per quanto assurdo possa sembrare, fu che si trattasse di fango… che una convulsione avesse scosso Urth e che la stanza stesse per essere inondata da quello che era stato il fondo di una fetida palude. La cosa fluttuò oltre lo stipite, cieca e soffice, e, contemporaneamente, un’altra torcia si spense. Ben presto, la cosa fu sul punto di toccare Decuman, ed io gridai per avvertirlo.

Non so se fu per il tocco della creatura o per il suono della mia voce, ma Decuman indietreggiò, ed io fui consapevole che l’incantesimo si era spezzato ancora una volta, e che la sua rete era di nuovo in pezzi. I due soli che mi avevano bloccato si allontanarono e svanirono, ed io ebbi l’impressione di espandermi e di ruotare in una direzione che non era né su né giù, né a sinistra né a destra, fino a ritrovarmi nella sala del confronto, con il piccolo Severian che mi si aggrappava al mantello.

In quel momento la mano di Decuman saettò, armata di artigli che non avevo neppure notato egli possedesse. Qualsiasi cosa fosse quella creatura nera e quasi informe, il suo fianco si tagliò come grasso e ne scaturì sangue che era anch’esso nero, o forse verde scuro. Quello di Decuman era rosso, e, quando la creatura fluì su di lui, parve sciogliere la sua pelle come cera.

Sollevai il ragazzo e gli dissi di aggrapparsi al mio collo e di stringermi le gambe intorno alla vita; quindi saltai con tutta la mia forza, ma, sebbene le mie dita sfiorassero un palo del soffitto, non riuscii ad afferrarlo. La creatura si stava girando, ciecamente, ma mossa da uno scopo. Forse cacciava servendosi dell’olfatto, ma io ho sempre pensato che fosse guidata dal pensiero… il che spiegherebbe come fosse stata tanto lenta a trovarmi nell’Anticamera, dove avevo dormito e sognato Thecla, ed invece così rapida in quella sala dei confronti, quando la mente di Decuman era focalizzata sulla mia.

Balzai di nuovo, ma questa volta mancai il palo di almeno una spanna.

Per prendere una delle torce rimaste, dovevo correre verso la creatura: lo feci ed afferrai la torcia, che però si spense mentre la sfilavo dal sostegno.

Tenendomi all’anello, balzai una terza volta, sostenendo l’impulso delle gambe con la forza del braccio, e questa volta riuscii ad afferrare un palo liscio e stretto con la mano sinistra. Il palo si piegò sotto il mio peso, ma potei issarmi, con il ragazzo sulle spalle, fino a puntare un piede contro l’anello della torcia.

Sotto di me, la nera creatura informe indietreggiò, cadde e si risollevò. Tenendomi sempre stretto al palo, estrassi Terminus Est: la lama tagliò profondamente la carne melmosa, ma era appena uscita dalla ferita che questa parve richiudersi e guarire. Allora rivolsi la spada verso la copertura del tetto, un espediente che riconosco di aver copiato da Agia. Il tetto era spesso, formato da foglie di jungla legate con fibre resistenti. I miei primi colpi frenetici parvero avere ben poco effetto, ma la terza volta ne cadde una grossa porzione, che colpì la torcia rimanente, spegnendola e facendo scaturire una lingua di fiamma. Volteggiai attraverso l’apertura ed uscii nel buio.

Balzando giù alla cieca, con la tagliente lama sguainata, come feci, è un miracolo che non uccidessi il ragazzo e me stesso. Quando toccai terra lasciai andare la spada ed il ragazzo, e caddi sulle ginocchia. Il bagliore rosso che scaturiva dal tetto si stava facendo sempre più violento ad ogni momento che passava. Sentii il bambino piangere e lo chiamai, temendo che scappasse ancora, poi lo tirai in piedi con una mano, afferrai Terminus Est con l’altra e mi misi a correre.

Per il resto di quella nottata fuggimmo ciecamente nella giungla, e, nei limiti del possibile, cercai di dirigere la nostra fuga verso monte… non solo perché per dirigerci a nord dovevamo salire, ma anche perché sapevo che così era meno probabile cadere in qualche precipizio… Quando si fece mattino, eravamo ancora nella giungla, senza avere un’idea più chiara di dove ci trovassimo. A quel punto presi in braccio il bambino, che si addormentò.

Dopo un altro turno di guardia, non ci fu più alcun dubbio che il terreno stesse salendo rapidamente davanti a noi, ed alla fine arrivammo ad una cortina di viticci simile a quella attraverso cui avevo aperto un varco, appena il giorno precedente. Proprio nel momento in cui stavo per cercare di deporre a terra il ragazzino senza destarlo, in modo da poter prendere la spada, vidi fluire la vivida luce del sole attraverso un’apertura alla mia sinistra. Mi avvicinai più in fretta che potevo, quasi correndo, e la oltrepassai, emergendo su un roccioso pendio cosparso di erba secca e di cespugli. Qualche altro passo mi portò fino ad un limpido ruscello che cantava sulle rocce… senza ombra di dubbio lo stesso accanto al quale il ragazzo ed io avevamo dormito due notti prima. Senza sapere e senza curarmi se la creatura informe fosse ancora sulle mie tracce, mi sdraiai accanto ad esso e mi addormentai.

Ero in un labirinto, simile, eppure al contempo dissimile, al cupo sotterraneo dei maghi. Qui i corridoi erano più ampi, e talvolta sembravano gallerie altrettanto imponenti quanto quelle della Casa Assoluta. Alcune, erano ricoperte di specchi, nei quali vidi me stesso, con il manto lacero ed il volto sparuto, e Thecla, semitrasparente e vestita con un adorabile abito lungo, vicina a me. I pianeti passavano sibilando lungo oblique, curve traiettorie che soltanto essi potevano vedere. L’azzurra Urth portava con sé la verde Luna come un neonato, ma non la toccava. Il rosso Verthandi divenne Decuman, con la pelle divorata, che ruotava nel suo sangue.