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— Non è una vera città — spiegai al ragazzo. — Quello che abbiamo trovato sono le guardie dell’Autarca, che attendono nel suo grembo per distruggere coloro che potrebbero fargli del male.

— Ci colpiranno?

— È un pensiero spaventoso, vero? Potrebbero schiacciare sia te che me sotto un piede come fossimo topi, ma io sono certo che non lo faranno: sono solo statue, guardie spirituali lasciate qui come ricordo dei poteri di quell’Autarca.

— Ci sono anche grosse case — osservò il bambino.

Aveva ragione. Gli edifici arrivavano a stento all’altezza della vita di quei colossi, cosicché in un primo tempo non li avevamo notati. Questo particolare mi fece ancora una volta tornare in mente la nostra Cittadella, dove costruzioni certo non abbastanza alte da poter sfidare le stelle si mescolavano alle torri. Forse fu soltanto un effetto dell’aria rarefatta, ma ebbi l’impressione di vedere quegli uomini di metallo sollevarsi lentamente, poi con sempre maggiore rapidità, alzando le mani verso il cielo per tuffarsi in esso come noi ci tuffavamo nelle acque scure della cisterna alla luce delle torce.

Anche se i miei stivali dovevano stridere sulla roccia spazzata dal vento, non ho alcun ricordo di un tale suono. Forse, esso si perdeva nella vastità delle cime montane, cosicché ci avvicinammo a quelle figure in piedi altrettanto silenziosamente come se camminassimo sul muschio. Le nostre ombre, che appena erano apparse si trovavano stese dietro di noi ed alla nostra sinistra, erano adesso ridotte a chiazze intorno ai piedi; notai che ora potevo vedere gli occhi di tutte le figure, e mi dissi che all’inizio dovevo averne trascurati alcuni, anche se il sole li faceva brillare.

Alla fine, imboccammo un sentiero che passava fra quei colossi e fra gli edifici che li attorniavano. Mi ero aspettato di trovare quegli edifici in rovina, come era stato nella città dimenticata di Apu-Punchau, ed invece essi erano chiusi, segreti e silenziosi, ed avrebbero potuto essere stati costruiti solo pochi anni prima. Nessun tetto era crollato, nessun viticcio aveva rimosso le squadrate pietre grige delle mura. Gli edifici erano privi di finestre, e la loro struttura non suggeriva l’idea che fossero templi, fortezze, tombe o altri tipi di costruzioni a me familiari. Erano completamente privi di ornamenti e di grazia, eppure erano stati costruiti in modo eccellente, e le loro diverse forme sembravano indicare diverse funzioni. Le figure lucenti si levavano fra di essi come se fossero state arrestate al loro posto da un qualche improvviso vento raggelante, e non come se fossero stati monumenti.

Scelsi un edificio e dissi al bambino che vi saremmo entrati e che, se fossimo stati fortunati, avremmo trovato acqua al suo interno e forse perfino cibo conservato, ma le mie parole si dimostrarono una sciocca vanteria. Le porte erano solide come le pareti, il tetto resistente come le fondamenta, e, anche se avessi avuto un’ascia, non credo che sarei riuscito ad aprirmi un varco con la forza, e non osavo servirmi di Terminus Est. Sprecammo parecchi turni di guardia alla ricerca di qualche punto debole nella struttura, ed il secondo ed il terzo edificio che esaminammo si rivelarono altrettanto difficili da aprire quanto il primo.

— C’è una casa rotonda laggiù — disse infine il bambino. — Andrò a dare un’occhiata per conto tuo.

Gli permisi di andare avanti perché ero certo che nulla potesse fargli male in quel luogo deserto, ed egli fu presto di ritorno.

— La porta è aperta! — annunciò.

XXIV

IL CADAVERE

Non ho mai scoperto a quale uso fossero destinati quegli altri edifici, e non compresi neppure a cosa servisse questo, che era circolare e coperto da una cupola. Le sue pareti erano di metallo… non il lucido metallo scuro che copriva le nostre torri della Cittadella, ma una qualche lega che sembrava argento lucidato.

Quel lucente edificio sorgeva su una sorta di piedistallo munito di scalini, ed io mi meravigliai della cosa, dal momento che le grandi immagini dei catafratti nelle loro antiche armature si ergevano invece semplicemente sulla strada. C’erano cinque porte lungo la circonferenza della costruzione (poiché facemmo un giro completo prima di penetrarvi) ed esse erano tutte aperte. Osservandole da vicino ed esaminando il suolo dinnanzi ad esse, cercai di determinare se erano aperte da molto tempo, ma a quell’altitudine c’era ben poca polvere, cosicché non potei esserne del tutto certo. Quando avemmo terminato la nostra ispezione, raccomandai al bambino di lasciarmi passare per primo ed entrai.

Non accadde nulla. Anche quando il ragazzo mi seguì, le porte non si chiusero, nessun nemico ci assalì, nessun lampo d’energia colorò l’aria ed il pavimento rimase saldo sotto i nostri piedi. Nondimeno, avevo la sensazione che eravamo chissà come entrati in una trappola, che fuori, sulla montagna, eravamo liberi, per quanto affamati ed assetati, mentre qui non lo eravamo più. Credo che mi sarei voltato e sarei fuggito se il bambino non fosse stato con me, ma, così come stavano le cose, non volevo apparire spaventato o superstizioso, e mi sentivo obbligato a tentare di trovare cibo ed acqua.

In quell’edificio c’erano molti congegni cui non saprei dare un nome: non erano pezzi di mobilio, né casse, e neppure macchine nel senso in cui io intendevo quel termine. Molti di essi presentavano una strana angolazione, e ne vidi alcuni che sembravano avere nicchie in cui era possibile sedersi, anche se chi vi si fosse seduto sarebbe rimasto rattrappito e si sarebbe trovato di fronte ad una qualche parte del congegno invece che ai suoi compagni. Altri apparecchi contenevano alcove in cui forse un tempo qualcuno aveva riposato.

Quei congegni si trovavano ai lati di corridoi, ampi corridoi che andavano verso il centro della struttura, dritti come i raggi di una ruota. Guardando lungo quello da cui eravamo entrati, distinsi in lontananza qualcosa di rosso, e, su di esso, un oggetto più piccolo, di colore marrone. All’inizio, non prestai grande attenzione a nessuno dei due, ma quando mi fui pienamente accertato che i congegni che ho descritto non potevano esserci utili e neppure dannosi, condussi il bambino verso di essi.

L’oggetto rosso era una sorta di giaciglio, molto elaborato, con cinghie adatte a trattenere un prigioniero, ed intorno vi erano dei meccanismi che sembravano essere destinati alla nutrizione ed all’evacuazione. Il giaciglio era posto su una piccola piattaforma, ed era occupato da ciò che un tempo era stato il corpo di un uomo con due teste. L’aria sottile e secca della montagna aveva disseccato quel corpo molto tempo addietro… come i misteriosi edifici, esso poteva risalire ad uno come a mille anni prima. Era stato un uomo più alto di me, forse perfino un esultante, e dalla possente muscolatura, mentre ora mi sembrava che avrei potuto strappargli via un braccio con un semplice gesto. Non portava indumenti di sorta, e, sebbene si sia abituati agli improvvisi cambi di dimensioni degli organi procreativi, era strano vedere come essi si fossero accartocciati in lui. Sulle teste rimanevano alcuni capelli, e mi parve di capire che quella sulla sinistra era stata biondiccia, e quella sulla destra bruna. Gli occhi di entrambe le teste erano chiusi, e le bocche aperte, munite di alcuni denti. Notai che le cinghie che avrebbero potuto essere usate per tenere ferma quella creatura non erano allacciate.

Il quel momento, tuttavia, ero più interessato al meccanismo che un tempo l’aveva nutrito. Dissi a me stesso che quelle antiche macchine avevano spesso una durata stupefacente, e che, sebbene fossero abbandonate da lungo tempo, avevano goduto delle condizioni ideali alla loro preservazione, e così premetti ogni pulsante che trovai e spostai ogni leva, nel tentativo di far loro produrre un po’ di nutrimento. Il bambino mi osservava, e, dopo che ebbi manipolato quegli apparecchi per qualche tempo, mi chiese se saremmo morti di fame.