Выбрать главу

Avevo avuto intenzione di soffermarmi sulla mano per guardarmi indietro, ma non lo feci… la verità è che temetti di finire per tornare sull’orlo del precipizio e gettarmi di sotto. In effetti, non mi arrestai fino a che non ebbi raggiunto la stretta scalinata di così tante centinaia di scalini che riportava nel grembo della montagna. Allora mi sedetti e, ancora una volta, individuai quella macchia di colore che era la collina sotto cui sorgeva la casa di Casdoe. Mi ricordai l’abbaiare del cane marrone, come lo avevo udito uscendo dalla foresta. Era stato un codardo, quel cane, quando era venuto l’alzabo, ma poi era morto con i denti affondati nella carne di uno zoantropo, mentre io, codardo a mia volta, ero rimasto indietro. Rammentai il volto stanco e grazioso di Casdoe, il bambino che sbirciava da dietro le sue gonne, il modo in cui il vecchio sedeva a gambe incrociate con la schiena al fuoco, parlando di Fechin. Adesso erano tutti morti, Severa e Becan, che non avevo mai visto; il vecchio, il cane, Casdoe, ora il piccolo Severian, Fechin, tutti morti, tutti dispersi nella nebbia che oscura i nostri giorni. Mi sembra che il tempo sia una cosa che si erge altrettanto solida quanto una successione di pali di ferro, con il suo alternarsi interminabile degli anni; e noi fluttuiamo oltre come il Gyoll, durante il nostro viaggio verso un mare da cui torneremo solo sotto forma di pioggia.

Conobbi allora, là sul braccio della gigantesca figura, l’ambizione di riuscire a dominare il tempo, un’ambizione accanto alla quale il desiderio di raggiungere soli lontani era solo l’avidità di un piumato capitano da quattro soldi di riuscire a soggiogare un’altra tribù.

Rimasi seduto là fino a che il sole non fu quasi del tutto scomparso dietro i monti ad ovest. Scendere avrebbe dovuto essere più facile che salire, ma ero molto stanco, ed il sobbalzo di ciascuno scalino mi faceva dolere le ginocchia. La luce era quasi svanita, ed il vento si era fatto gelido. Una delle coperte era bruciata con il bambino, ed io mi avvolsi l’altra intorno al petto ed alle spalle, sotto il mantello. Quando fui a circa metà della discesa, mi soffermai a riposare: del giorno rimaneva solo una sottile mezzaluna rossastra, che si assottigliò ulteriormente e svanì. In quel preciso momento, ciascuno dei grandi catafratti di metallo sotto di me sollevò una mano in un gesto di saluto. Erano così silenziosi e saldi, che avrei quasi potuto credere che fossero stati costruiti con il braccio sollevato, come apparivano in quel momento.

Per un po’, la meraviglia di quanto avevo visto annullò in me ogni senso di dolore, e potei solo provare stupore: rimasi dov’ero, fissandoli, senza osare muovermi, poi la notte si stese sulle montagne, e, nell’ultima, tenue luce crepuscolare, osservai le potenti braccia abbassarsi.

Ancora stupefatto, penetrai nel silenzioso gruppo di edifici che sorgevano in grembo alla figura. Se avevo visto fallire un miracolo, ne avevo visto accadere un altro, ed anche un miracolo apparentemente privo di scopo è un’inesauribile fonte di speranza, perché ci dimostra che, dal momento che non comprendiamo ogni cosa, le, nostre sconfitte… così più numerose delle nostre poche e vuote vittorie… potrebbero essere altrettanto speciose.

Per un qualche stupido errore, riuscii a perdere la strada quando tentai di ritrovare l’edificio rotondo in cui avevo detto al ragazzo che avremmo trascorso la notte, ed ero troppo stanco per mettermi a cercarlo.

Invece, mi trovai un angolo riparato e lontano dai guardiani di metallo, e là mi massaggiai le gambe dolenti e mi coprii meglio che potevo per difendermi dal freddo. Anche se dovetti addormentarmi immediatamente, venni ben presto destato da un soffice rumore di passi.

XXV

TYPHON E PIATON

Quando udii i passi, sguainai la spada e mi alzai, rimanendo in attesa nell’ombra per un tempo che mi parve più lungo di un turno di guardia, anche se indubbiamente dovette essere più breve. Altre due volte udii quei passi, rapidi e soffici, ma che suggerivano al contempo l’idea di un uomo massiccio che si stesse muovendo… un uomo possente che si affrettava e quasi correva, con passo leggero ed atletico.

Qui le stelle splendevano in tutta la loro gloria, tanto lucenti quanto debbono apparire a quei naviganti di cui sono i porti, quando esse si levano in cielo per stendere il velo dorato che avvolgerebbe un continente. Potevo vedere i guardiani immoti quasi come se fosse stato giorno, ed anche gli edifici circostanti, bagnati dalla luce multicolore di migliaia di soli. Noi pensiamo con orrore alle raggelate pianure di Dis, il più distante compagno del nostro sole… ma di quanti soli siamo noi il compagno più lontano? Per il popolo di Dis (se esiste) è tutta un’unica notte stellata.

Parecchie volte, mentre rimanevo in piedi sotto le stelle, fui sul punto di riaddormentarmi, e, in preda alla sonnolenza, mi preoccupai del bambino, dicendomi che probabilmente lo avevo svegliato quando mi ero alzato e chiedendomi se sarei riuscito a trovare un po’ di cibo per lui, quando fosse spuntato il sole. Dopo simili pensieri, il ricordo della sua morte mi tornava alla mente così come la notte era calata sulle montagne, un’ondata di oscurità e di disperazione. Allora compresi come doveva essersi sentita Dorcas quando Jolenta era morta. Fra me ed il bambino non c’era stata alcuna attrazione sessuale, come credo fosse invece talvolta esistita fra Dorcas e Jolenta, ma allora non era stato il loro amore fisico a destare la mia gelosia. La profondità dei miei sentimenti per quel bambino era stata pari di certo a quella dei sentimenti di Dorcas verso Jolenta (e certo molto maggiore di quelli di Jolenta per Dorcas). Pensai che, se Dorcas lo avesse saputo, ne sarebbe stata gelosa come lo ero stato io talvolta di lei, se solo mi aveva amato come io avevo amato lei.

Quando finalmente non udii più i passi, mi nascosi meglio che potevo, mi distesi e dormii. Mi ero aspettato che non mi sarei più destato da quel sonno, o che mi sarei destato con un coltello puntato alla gola, ma non accadde nulla del genere. Sognando acqua corrente, dormii ben oltre l’alba e mi svegliai solo, freddo ed irrigidito.

Non m’importava nulla del segreto dei passi, o dei guardiani o dell’anello o di qualsiasi altra cosa in quel luogo maledetto. Il mio unico desiderio era di andarmene di là al più presto possibile, e fui felice… anche se non avrei saputo spiegarmene il motivo, quando vidi che non sarei stato costretto a passare nuovamente dinnanzi all’edificio circolare nel mio tragitto verso il pendio nord-occidentale della montagna.

Ci sono state molte occasioni in cui ho avuto la sensazione di essere impazzito, perché ho avuto molte grandi avventure, e le avventure più grandi sono quelle che hanno maggiore effetto sulla nostra mente. E così fu anche allora. Un uomo, più alto di me e dalle spalle più larghe delle mie, uscì dal mezzo dei piedi di un catafratto, e fu come se una delle mostruose costellazioni del cielo notturno fosse caduta su Urth e si fosse rivestita di pelle umana, perché quell’uomo aveva due teste, come un orco di un qualche racconto dimenticato in Le Meraviglie di Urth e del Cielo.

Istintivamente, portai la mano all’elsa della spada che tenevo sulla spalla. Una delle teste rise, e credo che quella sia stata la sola risata che abbia mai accompagnato lo snudarsi della mia grande lama.

— Perché sei allarmato? — mi chiese. — Vedo che sei altrettanto ben equipaggiato quanto me. Qual è il nome della tua compagna?

— È Terminus Est - replicai, ammirando la sua baldanza nonostante il mio stupore, e girai la spada in modo che potesse vedere l’incisione sull’acciaio.