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I cespugli, che, nonostante il loro aspetto snello e forte, non erano stati in grado di sopravvivere alle maggiori altitudini dove invece viveva la tenera erba, fecero ora la loro comparsa; ma, quando li osservai con attenzione, scoprii che non erano cespugli, bensì piante che avevo visto altrove sotto forma di torreggianti alberi, accorciate qui dalla breve durata dell’estate e dalla furia selvaggia degli inverni, spesso spezzati dalle intemperie. Su una di quelle piante nane, trovai un tordo nel nido, il primo uccello che vedevo da qualche tempo, fatta eccezione per i volteggianti rapaci degli alti picchi. Una lega più avanti cominciai a sentire i fischi delle cavie, che avevano i loro nidi in buchi fra le sporgenze rocciose e che protendevano le testine chiazzate dai vivi occhi neri per avvertire i loro simili del mio passaggio.

Ancora una lega, ed un coniglio fuggì saltellando dinnanzi a me, terrorizzato al pensiero della roteante astara, che io invece non possedevo. A quel punto, stavo discendendo rapidamente, e cominciai ad accorgermi di quante forze avessi perduto, non solo a causa della fame e della malattia, ma anche per la rarefazione dell’aria. Era come se fossi stato afflitto da un secondo malessere di cui non mi ero accorto fino a che la ricomparsa dei cespugli e degli alberi aveva procurato la giusta cura.

Ormai, il lago non appariva più una lunga linea azzurra e nebbiosa: potevo scorgerlo come una grande distesa, quasi priva di lineamenti, di acqua del colore dell’acciaio, punteggiata da alcune barche che, come avrei appreso in seguito, erano costruite soprattutto di canne, e con un piccolo e perfetto villaggio all’estremità di una baia posta solo un poco sulla destra della mia attuale linea di viaggio.

Così come non mi ero reso conto di quanto fossi debole fino ad allora, fu solo quando vidi le barche ed il villaggio dai tetti di paglia che compresi quanto mi ero sentito solo da quando il bambino era morto. Era più che semplice solitudine, credo, perché non avevo mai avuto un gran bisogno di compagnia, a meno che fosse la compagnia di qualcuno che potevo chiamare mio amico. Certamente, di rado ho desiderato di conversare con stranieri o di vedere facce sconosciute. Credo piuttosto che, stando da solo, avevo in un certo senso l’impressione di aver perso la mia individualità: per il tordo ed il coniglio, io non ero Severian, bensì l’Uomo. Molta gente che ama vivere completamente sola, e, in particolare, completamente sola in luoghi selvaggi, lo fa, io credo, perché ama interpretare quel ruolo. Ma io volevo tornare ad essere una persona ben determinata, e perciò cercai lo specchio di altre persone, che mi potesse mostrare che non ero identico agli altri.

XXVIII

LA CENA DEL CAPO VILLAGGIO

Si fece quasi sera prima ancora che raggiungessi le prime case. Il sole tracciava un sentiero d’oro rosso sulle acque del lago, un sentiero che sembrava prolungare la strada del villaggio fino ai margini del mondo, cosicché la si sarebbe potuta percorrere per penetrare in un più grande universo. Ma il villaggio, sebbene, quando lo raggiunsi, mi si rivelasse povero e piccolo, era più che soddisfacente per me che avevo camminato per così tanto tempo in luoghi alti e remoti.

Non c’erano locande, e, dal momento che nessuna delle persone che mi sbirciavano da sopra il bordo dei davanzali mi sembrava particolarmente ben disposta a lasciarmi entrare, chiesi quale fosse la casa del capo del villaggio, spinsi da un lato la donna grassa che mi venne ad aprire e mi misi a mio agio. Quando finalmente il capo del villaggio giunse a vedere chi si era autonominato suo ospite, io avevo già tirato fuori la pietra per affilare, l’olio e lo straccio e mi stavo chinando sulla lama di Terminus Est mentre mi riscaldavo accanto al fuoco. Il capo del villaggio esordi con l’inchinarsi, ma era tanto curioso nei miei confronti che non seppe resistere alla tentazione di darmi un’occhiata mentre s’inchinava, al punto che io trovai difficoltà nell’evitare di guardarlo a mia volta, il che sarebbe stato fatale per i miei piani.

— L’ottimate è il benvenuto — disse l’uomo, atteggiando ad un sorriso le guance avvizzite. — Molto benvenuto. La mia povera casa… tutto il nostro povero villaggio, sono a sua disposizione.

— Io non sono un ottimate — gli risposi. — Io sono il Gran Maestro Seyerian, dell’Ordine dei Cercatori della Verità e della Penitenza, comunemente detto la corporazione dei torturatori. Tu, capo villaggio, ti rivolgerai a me chiamandomi Maestro. Ho avuto un viaggio difficile, e se mi procurerai una buona cena ed un letto decente, sarà difficile che io arrechi ulteriori disturbi a te o alla tua gente prima di domattina.

— Avrai il mio letto — replicò prontamente l’uomo, — e tutto il cibo che riusciremo a trovare.

— Dovete avere abbondanza di pesce fresco, qui, ed uccelli acquatici. Li voglio entrambi, ed anche riso selvatico. — Mi rammentai che una volta, mentre discuteva sui rapporti della nostra corporazione con le altre della Cittadella, Maestro Gurloes mi aveva detto che uno dei modi migliori per dominare un uomo è quello di chiedergli qualcosa che non è in grado di fornire. — Miele, pane fresco, e burro dovrebbero bastare, a parte le verdure e l’insalata, ma, dato che non ho preferenze in merito, lascerò a te di farmi una sorpresa. Portami qualcosa di buono, e qualcosa che non abbia mai mangiato prima, in modo che io possa raccontarlo quando tornerò alla Casa Assoluta.

Mentre parlavo, gli occhi del capo del villaggio si erano fatti sempre più rotondi, e, alla menzione della Casa Assoluta, che in quello sperduto villaggio non doveva essere indubbiamente altro che la più vaga delle voci, essi parvero sul punto di schizzargli fuori dalle orbite. Cercò di mormorare qualcosa in merito al bestiame (probabilmente non erano in grado di produrre burro a quell’altitudine), ma io lo congedai con un cenno, e poi lo acciuffai per la collottola perché non si era richiuso la porta alle spalle.

Quando se ne fu andato, corsi il rischio di togliermi gli stivali. Non è mai opportuno apparire troppo rilassati in presenza dei prigionieri (ed il capo ed il suo villaggio erano ora miei prigionieri, pensai, anche se non erano rinchiusi), ma mi sentivo certo che nessuno avrebbe osato entrare in quella stanza prima che fosse stato approntato un qualche pasto. Finii di oliare Terminus Est, poi ne affilai nuovamente le estremità. Ciò fatto, trassi fuori l’altro mio tesoro (anche se in effetti non era mio) dalla sacca e lo osservai alla luce del pungente fuoco. Da quando avevo lasciato Thrax, esso non premeva più contro il mio petto come un pugno di ferro… addirittura, mentre vagavo fra le montagne ero giunto al punto di dimenticarmene per una mezza giornata, ed una volta o due lo avevo afferrato in preda al panico, temendo, quando mi ero finalmente rammentato di lui, di averlo perduto. In quella stanza squadrata e dal tetto basso, in cui le rotonde pietre delle pareti sembravano scaldarsi il ventre al fuoco come autorevoli cittadini, esso non brillava come aveva fatto nello jacal del ragazzo dall’occhio malato, ma non era neppure inerte come quando l’avevo mostrato a Typhon. Ora, piuttosto, sembrava irradiare luce, al punto che potevo quasi immaginare il gioco di energie sulla mia faccia. Il marchio a forma di luna crescente nel cuore della gemma non mi era mai parso più distante di così, e, sebbene esso fosse scuro, ne emanava un punto di luce.