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Finalmente riposi la gemma, vergognandomi un poco di aver giocherellato con una cosa di tanto valore come fosse stato un ciottolo. Trassi fuori il libro marrone, ed avrei voluto leggerne un brano, se solo avessi potuto; ma, sebbene la febbre sembrasse avermi lasciato, ero ancora molto affaticato, e la tremolante luce del fuoco faceva danzare sulla pagina le vecchie parole scarabocchiate e presto sconfisse i miei occhi, al punto che la storia che stavo leggendo mi parve in certi momenti essere un cumulo di sciocchezze, ed in altri aver a che fare con la mia situazione… viaggi senza fine, la crudeltà della folla, ruscelli colmi di sangue. Una volta mi parve di scorgere il nome di Agia, ma quando guardai meglio, la parola era divenuta la parola ancora: «Agia balzò, e contorcendosi intorno alle colonne del carapace…»

La pagina sembrava luminosa e al contempo indecifrabile, come il riflesso di un vetro visto in una polla tranquilla. Chiusi il libro e lo riposi nella mia giberna, senza essere certo di aver realmente visto alcuna delle parole che avevo pensato un istante prima di aver letto. Agia doveva effettivamente essere balzata giù dal tetto di zolle della casa di Casdoe, e certo contorceva le cose, poiché aveva distorto l’esecuzione di Agilus facendone un omicidio. Si suppone che la grande testuggine che, secondo il mito, reggerebbe il mondo e sarebbe quindi un’incarnazione dell’universo, abbia rivelato in tempi antichi la Regola Universale, andata perduta, in base alla quale si può essere sempre certi di agire correttamente. Il suo carapace rappresenta la coppa del cielo, il suo piastrone le pianure di tutti i mondi, mentre le colonne del carapace dovrebbero rappresentare le armate del Teologumeno, terribili e splendenti…

Eppure, non ero certo di aver letto nulla di tutto questo, e quando tirai nuovamente fuori il libro e tentai di ritrovare la pagina non vi riuscii. Per quanto sapessi che la mia confusione era esclusivamente dovuta alla stanchezza, alla fame ed alla luce, provai quel timore che mi aveva sempre assalito in molte occasioni della mia vita, quando qualche piccolo incidente mi aveva reso consapevole di un’incipiente insanità mentale. Mentre fissavo il fuoco, mi parve più probabile di quanto mi sarebbe piaciuto credere che un giorno, magari a causa di un colpo in testa, o magari senza alcun motivo determinato, la mia ragione e la mia immaginazione si scambiassero di posto… proprio come due amici che tutti i giorni vanno a sedersi sulla stessa panchina in un giardino pubblico, ed un giorno decidono di scambiarsi di posto, giusto per amor di novità. Allora avrei visto come reali tutti i fantasmi della mia mente, mentre avrei percepito solo nel modo vago in cui solitamente percepiamo paure ed ambizioni, le persone e le cose del mondo reale. Questi pensieri, espressi a questo punto della narrazione, devono sembrare dettati da una sorta di prescienza, ed io li posso giustificare soltanto dicendo che, tormentato come sono sempre dalla mia memoria, ho meditato molto spesso nello stesso senso.

Un leggero bussare alla porta pose fine alla mia vaga fantasticheria; mi infilai gli stivali e chiamai:

— Avanti!

Una persona che badò bene a restare fuori dal mio campo visivo, per quanto fossi certo che si trattava del capo villaggio, spinse indietro la porta, ed una giovane donna entrò portando un vassoio d’ottone carico di piatti.

Fu soltanto quando la ragazza ebbe deposto il vassoio che mi accorsi che era completamente nuda, fatta eccezione per quelli che inizialmente scambiai per rozzi gioielli. E soltanto quando s’inchinò, portandosi le mani alla fronte nel gesto di saluto tipico del nord, vidi che le bande di metallo cupamente brillante intorno ai suoi polsi non erano braccialetti, bensì manette d’acciaio temprato congiunte da una catena.

— La tua cena, Grande Maestro — disse la ragazza, ed indietreggiò verso la porta fino a che potei notare la carne dei suoi tondi fianchi premuta contro il battente. Con una mano, la ragazza tentò di sollevare il chiavistello, ma, sebbene udissi il suo debole scricchiolare, la porta non cedette. Indubbiamente, la persona che l’aveva fatta entrare la stava tenendo chiusa dall’esterno.

— L’odore è delizioso — le dissi. — Hai cucinato tu?

— Qualche cosa. Il pesce e le frittelle.

Mi alzai in piedi, ed appoggiai Terminus Est alla rozza parete in modo da non spaventare la ragazza, quindi procedetti ad esaminare il pasto: una giovane anatra, tagliata e cotta alla griglia, il pesce citato dalla ragazza, le frittelle (che più tardi scoprii essere di farina mescolata a molluschi tritati), patate cotte nelle ceneri di un fuoco ed un’insalata di funghi e verdure.

— Niente pane — dissi, — niente miele e niente burro. Mi sentiranno.

— Speravamo, Grande Maestro, che le frittelle ti avrebbero soddisfatto.

— Mi rendo conto che non è colpa tua.

Era passato parecchio tempo da quando ero stato con Cyriaca, ed ora, per quanto avessi cercato di evitarlo, mi trovai ad osservare quella schiava. I lunghi capelli neri le arrivavano alla cintura, e la sua pelle aveva quasi lo stesso colore del vassoio che reggeva, eppure aveva la vita sottile, cosa rara fra le donne autoctone, ed il suo viso era piccante e perfino leggermente aguzzo. Agia, nonostante la pelle chiara e le lentiggini, aveva un viso decisamente più largo.

— Grazie, Grande Maestro. Lui vuole che rimanga qui e ti serva mentre mangi. Se non lo desideri, devi dirgli di aprire la porta e di lasciarmi uscire.

— Gli dirò — replicai, alzando la voce, — di allontanarsi dalla porta e di smetterla di origliare mentre conversiamo. Stai parlando del tuo padrone, suppongo, del capo di questo villaggio.

— Sì, di Zambdas.

— E qual è il tuo nome?

— Pia, Grande Maestro.

— E quanti anni hai, Pia?

Me lo disse, e sorrisi nello scoprire che aveva esattamente la mia stessa età.

— Ora tu mi devi servire, Pia. Io mi siederò là, vicino al fuoco, dove mi trovavo prima che tu venissi, e tu mi porterai il cibo. Hai mai servito a tavola, prima d’ora?

— Oh, sì, Grande Maestro, servo ad ogni pasto.

— Allora dovresti sapere come fare. Cosa mi raccomandi per primo… il pesce? — chiesi, e lei annuì. — Allora portamelo qui, ed anche il vino e qualcuna delle frittelle. Hai mangiato?

— Oh, no, ma non sarebbe giusto che io mangiassi con te — mi rispose, scuotendo il capo fino a far danzare i capelli neri.

— Eppure, vedo che riesco a contare parecchie costole.

— Sarei battuta per questo, Grande Maestro.

— Non finché io sarò qui, per lo meno. Comunque, voglio accertarmi che non sia stato messo in questo cibo qualcosa che io non darei neppure al mio cane, se lo avessi ancora. Il vino sarebbe il candidato ideale, credo; dovrebbe essere grezzo ma dolce, come la maggior parte dei vini di campagna. — Riempii a metà il boccale di pietra e lo porsi alla ragazza. — Bevilo, e se non cadrai a terra in preda alle convulsioni, lo assaggerò anch’io.

Pia ebbe qualche difficoltà a trangugiare il vino, ma alla fine ci riuscì, e mi restituì il boccale con occhi lacrimosi. Allora mi versai un po’ di vino a mia volta e lo trovai cattivo come mi ero aspettato.

Feci quindi sedere Pia accanto a me e le feci mangiare uno dei pesci che aveva fritto con le sue mani, e, quando ebbe finito, ne mangiai un paio anch’io: i pesci erano tanto più buoni del vino quanto il volto delicato di Pia era più bello di quello del vecchio capo villaggio, erano certo stati pescati quel giorno ed in acque molto più pulite e profonde di quelle fangose del Gyoll, da cui veniva il pesce che ero solito mangiare nella Cittadella.

— Incatenano sempre i loro schiavi, qui? — le chiesi, mentre ci dividevamo le frittelle. — Oppure tu sei stata particolarmente ribelle, Pia?

— Io appartengo al popolo del lago — mi rispose, come se fosse sufficiente, il che indubbiamente era per chi avesse avuto familiarità con la situazione locale.