— Penserei che questa gente sia il popolo del lago — replicai, indicando con un gesto la casa ed il resto del villaggio.
— Oh, no, questo è il popolo delle rive. Il nostro popolo vive sul lago, su isole, ma qualche volta il vento spinge le nostre isole vicino alla riva, e Zambdas teme che io possa scorgere la mia casa e cercare di raggiungerla a nuoto. La catena è pesante… vedi com’è lunga… ed io non me la posso togliere, e così il suo peso mi farebbe annegare.
— A meno che tu non trovassi un pezzo di legno cui appoggiarne il peso mentre nuoti con i piedi — obiettai, ma fece finta di non sentire.
— Ti andrebbe un pezzo di anatra, Gran Maestro?
— Sì, ma a patto che tu ne mangi prima un po’, e prima ancora voglio che tu mi parli di queste isole. Hai detto che il vento le spinge qui? Confesso di non aver mai sentito parlare di isole mosse dal vento.
Pia stava fissando con desiderio l’anatra, che doveva essere considerata una delicatezza prelibata in quella parte del mondo.
— Ho sentito dire che ci sono isole che non si muovono. Deve essere una cosa molto antipatica, credo, e non ne ho mai vista una. Le nostre isole si spostano da un luogo all’altro, e talvolta noi stendiamo vele fra gli alberi per farle viaggiare più in fretta. Tuttavia, non si muovono molto bene sotto la spinta del vento perché non hanno un fondo fatto come quello delle barche, ma fondi insulsi come quelli delle vasche da bagno, e talvolta si rovesciano.
— Voglio vedere le tue isole, prima o poi, Pia — le dissi, — e voglio anche vederti tornare ad esse, dato che mi sembra che è là che desideri andare. Devo qualcosa ad un uomo dal nome molto simile al tuo, e perciò cercherò di aiutarti prima di lasciare questo luogo. Nel frattempo, farai meglio ad aumentare le tue forze con un po’ di quell’anatra.
Ne prese un pezzo, e, dopo aver inghiottito qualche boccone, cominciò a staccare porzioni di carne che mi diede con le sue dita. Era molto buona, ancora fumante e ripiena di aromi delicati che mi ricordavano il gusto del prezzemolo, forse a causa delle piante acquatiche di cui quelle anatre si nutrivano. Quando ebbi mangiato quasi un’intera coscia, presi qualche boccone d’insalata per pulirmi il palato.
Credo di aver mangiato in seguito ancora un po’ di anatra, poi una figura nel fuoco attirò la mia attenzione. Un frammento di legno consumato, ardente di calore, era caduto da uno dei ceppi nelle ceneri sotto la grata, ma, invece di rimanere là e di divenire infine nero e spento, parve raddrizzarsi e trasformarsi in Roche, con i suoi capelli rossi tramutati in fiamma vera, Roche che teneva in mano una torcia come era solito fare quando da ragazzi andavamo a nuotare nella cisterna sotto il Forte della Campana.
Mi parve talmente straordinario vederlo là, ridotto ad un ardente micromorfo, che mi volsi verso Pia per indicarglielo. Ebbi l’impressione che la ragazza non avesse visto nulla, ma Drotte, non più alto del mio pollice, era fermo sulla sua spalla, mezzo nascosto fra i suoi fluenti capelli neri. Quando tentai di dire a Pia che Drotte era là, mi trovai a parlare in una nuova lingua, sibilando, grugnendo e schioccando la lingua. Non provai paura per nessuna di queste cose, solo un distaccato senso di meraviglia.
Riuscivo a capire che non mi stavo esprimendo nel normale linguaggio umano, ed osservavo il volto inorridito di Pia come se fosse stato un antico dipinto nelle gallerie del vecchio Rudisind, nella Cittadella. Eppure, non riuscivo a tramutare i suoni che emettevo in parole, e neppure a bloccarli. Pia urlò.
La porta si spalancò. Era rimasta chiusa per così tanto tempo che mi ero quasi dimenticato che non poteva essere chiusa a chiave, ma ora era aperta e due figure erano ferme sulla soglia. Quando la porta si aprì, essi erano uomini, uomini le cui facce erano state sostituite da lisce pellicce simili a quelle di due otarie, ma pur sempre uomini. Un momento più tardi, erano diventati piante, alti steli di viridiana da cui sporgevano le foglie, stranamente angolate e taglienti come rasoi, dell’avern. Ragni, neri e morbidi e dalle gambe multiple si nascondevano là. Tentai di alzarmi dalla sedia, ed essi mi gettarono addosso larghe ragnatele splendenti alla luce del fuoco. Ebbi solo il tempo di scorgere e di ricordare il volto di Pia, con gli occhi dilatati e la bocca delicata raggelata in un cerchio inorridito, prima che una Pellegrina con un becco d’acciaio piombasse su di me e mi strappasse l’Artiglio dal collo.
XXIX
LA BARCA DEL CAPO VILLAGGIO
Venni rinchiuso al buio per un periodo di tempo che più tardi scoprii essere durato tutta la notte e gran parte del mattino successivo. Eppure, sebbene dove giacevo fosse buio, inizialmente non me ne resi conto, perché le mie allucinazioni non avevano bisogno della luce di una candela. Le ricordo ancora, così come ricordo ogni cosa, ma non ti annoierò, mio ultimo lettore, con l’intero catalogo dei fantasmi che vidi, anche se sarebbe per me molto facile descriverli qui. Quello che non è facile, è esprimere i miei sentimenti relativamente ad essi.
Sarebbe stato un grande sollievo per me poter credere che quei fantasmi erano tutti in qualche modo creati dalla droga somministratami (che era, come intuii allora e come appresi più tardi, quando potei interrogare coloro che curavano i feriti dell’esercito dell’Autarca, contenuta nei funghi affettati nella mia insalata), così come i pensieri e la personalità di Thecla, confortanti a volte e disturbanti in altre occasioni, erano stati contenuti nel frammento della sua carne che avevo mangiato al banchetto di Vodalus. Eppure, sapevo che non poteva essere così, e che tutte le cose che vedevo, alcune divertenti, altre orribili e terrificanti, altre ancora semplicemente grottesche, erano un prodotto della mia mente. O di quella di Thecla, che ora faceva parte della mia.
O piuttosto, come iniziai a comprendere là nell’oscurità, mentre osservavo una parata di donne della corte… esultanti estremamente alte e piene della rigida grazia delle porcellane costose, i volti incipriati con polvere di perle e di diamanti e gli occhi allargati, come lo erano stati quelli di Thecla, dall’applicazione di minuscole dosi di certi veleni durante l’infanzia… prodotti della mente che ora esisteva come combinazione delle menti che erano state la sua e la mia.
Severian, l’apprendista che ero stato, il giovane uomo che nuotava sotto il Forte della Campana, che una volta era quasi affogato nel Gyoll, che aveva vagabondato da solo nei giorni estivi nella necropoli in rovina, che aveva dato alla Castellana Thecla, una volta giunto al nadir della sua disperazione, il coltello rubato, era scomparso.
Ma non era morto. Perché aveva supposto che ogni vita dovesse terminare con la morte e mai con qualcosa d’altro? Non era morto, ma era svanito, così come una singola nota svanisce per non riapparire mai più quando diviene un’indistinguibile ed inseparabile parte di qualche melodia. Quel giovane Severian aveva odiato la morte, e per misericordia dell’Increato, la cui pietà in effetti (come è saggiamente detto in molti posti) ci confonde e ci distrugge, non era morto.
Le donne volsero i lunghi colli a guardarmi: i loro volti ovali erano perfetti, simmetrici, privi di espressione eppure lascivi. All’improvviso compresi che esse non erano… o almeno non erano più… le castellane della Casa Assoluta, ma erano divenute invece le cortigiane della Casa Azzurra.
Per qualche tempo, così mi parve, la parata di quelle donne seducenti ed inumane continuò, e, a ciascun battito del mio cuore (di cui in quel momento ero consapevole come non lo ero mai stato prima o come non lo sarei più stato, perché mi pareva di avere un tamburo che mi sussultava in petto) esse invertivano i loro ruoli senza mutare neppure il più piccolo dettaglio del loro aspetto. Come mi è talvolta capitato, in sogno, di capire che una certa figura era in effetti qualcun altro cui non somigliava affatto, così sapevo che un momento quelle donne erano gli ornamenti della presenza autarchiale, ed il momento successivo erano donne in vendita per una notte in cambio di una manciata di oricalchi.