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NATRIUM

Quei pescatori che vivevano sulle rive del lago erano armati in maniera talmente primitiva… addirittura più primitiva di quanto lo fossero gli autoctoni selvaggi che avevo visto in giro per Thrax… che ci misi parecchio tempo prima di capire che erano effettivamente armati. A bordo c’erano più persone di quante fossero necessarie per pilotare e manovrare la vela, ma io pensai che gli altri fossero rematori o che rappresentassero una scorta destinata ad accrescere il prestigio del capo villaggio quando questi mi avesse consegnato al suo signore, al castello. Alla cintura portavano coltelli dalla lama diritta e stretta del tipo usato dovunque dai pescatori, ed a prua era sistemato un fascio di lance da pesca, ma non diedi importanza alla cosa. Fu soltanto quando una delle isole che ero stato tanto ansioso di vedere apparve all’orizzonte, che scorsi uno degli uomini impugnare una mazza munita all’estremità di denti di animali e che mi resi finalmente conto che quegli uomini in più erano stati portati come guardia, e che c’era qualcosa contro cui guardarsi.

La piccola isola non aveva in apparenza nulla di eccezionale, fino a che non ci si accorgeva che in effetti si muoveva. Era bassa e molto verde, e sulla sua punta più alta c’era una piccola capanna, costruita anch’essa di canne, come la barca, e con un tetto dello stesso materiale. Quando fummo più vicini, vidi che anche l’isola era fatta di canne, ma di canne vive i cui steli conferivano quel verde caratteristico, mentre le radici intrecciate formavano la base a forma di zattera. Su quell’ammasso vivente, il terriccio si era accumulato da solo o era stato ammucchiato dagli abitanti. Alcuni alberi erano cresciuti sull’isola e le loro radici finivano immerse nell’acqua del lago. Un piccolo orto di vegetali appariva rigoglioso.

Poiché il capo villaggio e tutti gli altri occupanti la barca, fatta eccezione per Pia, fissavano con preoccupazione quella piccola isola, io la contemplai con piacere. Del resto, vista come la vedevo io allora, una macchia di verde che si stagliava contro il freddo ed apparentemente infinito azzurro della superficie del Diuturna e contro il più profondo e più caldo, ma realmente infinito, azzurro del cielo coronato dal sole e spruzzato di stelle, quell’isoletta era facile da amare. Se avessi osservato quella scena come fosse stata un quadro, essa mi sarebbe parsa più pesantemente simbolica… la linea piana dell’orizzonte che divideva lo scenario in due metà uguali, il punto di verde con i suoi alberi e la capanna marrone… una di quelle pitture che i critici sono soliti deridere per via del loro simbolismo. Eppure, chi avrebbe potuto dire quale fosse il suo significato? È impossibile, io credo, che tutti i simboli che vediamo nei paesaggi naturali siano là solo perché noi li vediamo. Nessuno esita a marchiare con la qualifica di pazzo il solipsista che crede veramente che il mondo esista soltanto perché lui lo osserva e che edifici, montagne e perfino noi stessi (cui egli ha parlato solo un momento prima) svaniranno non appena avrà voltato il capo. Non è dunque altrettanto pazzesco credere che il significato di quegli stessi oggetti svanisca nel medesimo modo? Se Thecla aveva simbolizzato quell’amore di cui io mi sentivo indegno, come ora so che aveva effettivamente fatto, forse che la forza del suo simbolismo svaniva quando io richiudevo alle mie spalle la porta della sua cella? Sarebbe come dire che ciò che è descritto in questo libro, cui ho lavorato per così tanti turni di guardia, svanirà in una chiazza vermiglia quando io lo chiuderò per l’ultima volta e lo manderò nell’eterna biblioteca curata dal vecchio Ultan.

Il grande dilemma su cui stavo riflettendo allora, mentre osservavo l’isola galleggiante con desiderio e lottavo contro i miei legami imprecando in cuor mio contro il capo villaggio, era quello di stabilire cosa significhino quei simboli in e per se stessi. Noi siamo come bambini che guardano le parole stampate e vedono un serpente nella penultima lettera ed una spada nell’ultima.

Non so quale fosse il messaggio a me rivolto dalla piccola capanna e dal suo giardinetto sospesi fra due infiniti. Però, il significato che io vi lessi fu quello della libertà e di una casa, ed allora provai un desiderio di libertà, per la possibilità di vagare a mio piacimento per i mondi superiori ed inferiori, portando con me quelle comodità che mi erano sufficienti, maggiore di quel che avessi mai provato prima… anche quando ero stato prigioniero nell’Anticamera della Casa Assoluta o quando ero stato io stesso cliente dei torturatori della Vecchia Cittadella.

In quel momento, proprio quando maggiormente desideravo di essere libero e quando la nostra rotta ci aveva portati il più vicino possibile all’isola, un uomo ed un ragazzo di circa quindici anni uscirono dalla capanna e ci fissarono come se stessero valutando le dimensioni della barca ed il suo equipaggio. C’erano cinque uomini del villaggio a bordo, più il capo, e, sebbene sembrasse evidente che gli isolani non potevano fare nulla contro di noi, essi fecero muovere la loro leggera zattera, l’uomo remando per seguirci ed il ragazzo tendendo una rozza vela.

Il capo villaggio, che di tanto in tanto si voltava ad osservare gli isolani, era seduto accanto a me con Terminus Est in grembo, ed io avevo l’impressione che da un momento all’altro dovesse deporre la spada per andare a poppa a parlare con l’uomo al timone, oppure a prua a parlare con gli altri quattro che oziavano là. Avevo le mani legate davanti a me, e mi sarebbe bastato un istante per snudare un pollice di lama della spada e tagliare le corde, ma l’opportunità non si presentò mai.

Una seconda isola apparve in vista, e comparve anche un’altra barca, che trasportava due uomini. Adesso la situazione era leggermente peggiorata, ed il capo villaggio chiamò a sé uno dei suoi uomini e si spostò verso poppa di un paio di passi, portandosi dietro la mia spada. Aprirono un cesto di metallo che era nascosto sotto la piattaforma del timoniere ed estrassero un’arma di un tipo che non avevo mai visto in precedenza: un arco ottenuto legando insieme due archi sottili, ciascuno dei quali aveva la sua corda, e fissandoli a sostegni che li tenevano ad una spanna circa di distanza l’uno dall’altro. Le corde erano legate insieme al centro, cosicché l’arma veniva a costituire una sorta di fionda per un proiettile.

Mentre seguivo con curiosità quelle manovre, Pia mi si fece più vicina.

— Mi stanno osservando — sussurrò. — Non ti posso liberare ora, ma forse… — e lanciò un’occhiata significativa in direzione delle barche che seguivano la nostra.

— Ci attaccheranno?

— No, a meno che altri ancora non si uniscano a loro. Essi hanno soltanto lance da pesca e pachos. — Vedendo che non capivo, aggiunse: — Bastoni con i denti… anche uno di questi uomini ne ha uno.

L’uomo convocato dal capo villaggio stava prendendo dal canestro quel che sembrava una straccio unto. Lo aprì appoggiandolo al coperchio del cesto e mise in mostra parecchi proiettili di metallo color grigio argenteo e dall’aspetto oleoso.

— I proiettili del potere — osservò Pia, e pareva spaventata.

— Pensi che verranno altri del tuo popolo?

— Se oltrepasseremo altre isole. Se una o due barche seguono un’imbarcazione di terra, allora lo fanno tutti, per dividersi il bottino. Ma presto saremo nuovamente in vista della riva… — Sotto la camicia stracciata il suo seno si sollevò nel momento in cui l’uomo del villaggio si puliva le mani sulla giacca, prendeva uno dei proiettili argentati e lo sistemava nella corda dell’arco doppio.

— È solo una pietra pesante… — cominciai a dire. L’uomo tirò indietro la corda fino all’orecchio, poi la lasciò andare, ed il proiettile passò sibilando nello spazio fra i due sottili archi. Pia era apparsa così spaventata che io mi aspettavo quasi che il proiettile subisse una qualche trasformazione in volo, divenendo forse uno di quei ragni che ero ancora mezzo convinto di aver visto mentre ero drogato ed ero intrappolato nelle reti di quei pescatori.