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— Anche se siamo noi quelli che soffrono maggiormente — mi disse Llibio, — il popolo della riva è riuscito ad impossessarsi del castello. Sono più forti di noi in guerra, ma non tutto quello che hanno bruciato è stato ricostruito, ed essi non avevano un capo venuto dal sud.

Interrogai sia lui che gli altri in merito alle terre circostanti il castello, e spiegai che non avremmo attaccato fino a che la notte avesse reso difficile per le sentinelle scorgere il nostro avvicinarsi. Anche se non lo dissi, volevo attendere l’oscurità perché questo rendeva impossibile sparare con precisione; se il padrone del castello aveva dato al capo villaggio i proiettili del potere, mi sembrava probabile che avesse conservato per sé armi molto più efficaci.

Quando salpammo, ero alla testa di circa un centinaio di guerrieri, anche se la maggior parte di loro era armata di lance con la punta d’osso di foca, oppure di pachos o coltelli. Farebbe bene alla stima di me stesso se adesso scrivessi che avevo acconsentito a guidare quel piccolo esercito perché mosso da un senso di responsabilità e di preoccupazione per la loro situazione, ma non sarebbe vero. Né lo feci perché temessi quello che avrebbero potuto farmi se avessi rifiutato, anche se sospetto che, a meno di ricorrere ad un’elevata dose di diplomazia, fingendo di ritardare o di scorgere un qualche beneficio per gli isolani nel non combattere, mi sarei potuto trovare in una situazione davvero brutta.

La verità è che ero sottoposto ad una forza coercitiva maggiore di qualsiasi pressione da parte loro. Llibio portava intorno al collo un pesce intagliato in un dente, e, quando gli avevo chiesto cosa fosse, aveva risposto che era Oannes, e lo aveva coperto con la mano in modo che i miei occhi non lo potessero profanare, poiché lui sapeva bene che io non credevo in Oannes, che doveva certo essere il pesce-divinità di quel popolo.

In effetti, io non credevo in lui, eppure sentivo di sapere su Oannes tutto ciò che importava sapere. Sapevo che viveva nelle oscure profondità del lago, ma che lo si poteva veder balzare sulle onde durante le tempeste. Sapevo che era il pastore del profondo, che riempiva le reti degli isolani di pesce, e che gli assassini non potevano solcare le acque senza timore, perché Oannes sarebbe apparso accanto alla loro barca con occhi grandi come lune, e l’avrebbe fatta rovesciare.

Io non credevo in Oannes e non lo temevo, ma pensavo di sapere da dove venisse… sapevo che nell’universo esiste un potere che pervade tutto e che rispetto ad esso ogni altro potere è ombra. Sapevo che, in ultima analisi, la mia concezione di quel potere era altrettanto ridicola (ed altrettanto seria) quanto quella di Oannes. Sapevo che l’Artiglio gli apparteneva, e sentivo che era solo dell’Artiglio che sapevo queste cose, solo dell’Artiglio fra tutti gli altari ed i paramenti del mondo. Lo avevo tenuto in mano innumerevoli volte, lo avevo sollevato sulla mia testa nel Vincula, avevo toccato con esso l’ulano dell’Autarca e la ragazza malata nello jacal di Thrax. Avevo tenuto in mano l’infinito ed avevo maneggiato il suo potere; non ero più certo che sarei riuscito a consegnarlo remissivamente alle Pellegrine, se mai le avessi rintracciate, ma sapevo con certezza che non lo avrei ceduto remissivamente a nessun altro.

Per di più, mi sembrava in un certo modo di essere stato prescelto per detenere, sia pure per breve tempo, quel potere. Le Pellegrine lo avevano perduto a causa della mia irresponsabilità nel permettere ad Agia di incitare il nostro cocchiere a gareggiare, e quindi era divenuto mio dovere averne cura, usarlo e forse restituirlo. Ed era certo mio dovere recuperarlo dalle mani, mani mostruose a quanto pareva, in cui era adesso caduto a causa della mia incuria.

Prima di cominciare questo resoconto della mia vita, non avevo intenzione di rivelare alcuno dei segreti della nostra corporazione che mi furono svelati dal Maestro Palaemon e dal Maestro Gurloes appena prima che venissi elevato, il giorno della festa di Santa Katharine, al rango di artigiano. Ma ne rivelerò uno ora, poiché ciò che feci quella notte sul Lago Diuturna non può essere compreso se non si conosce questo segreto. E tale segreto è solo che noi torturatori obbediamo. In tutto l’elevato ordine del corpo politico, quella piramide di vite che è immensamente più alta di qualsiasi torre materiale, più alta del Forte della Campana, più alta del Muro di Nessus, più alta del Monte Typhon, quella piramide che si estende dall’Autarca sul suo Trono della Fenice al più umile impiegato che sgobba per il più disonorato commerciante… una creatura più infima del più infimo mendicante… noi siamo l’unica pietra solida. Nessuno obbedisce realmente se non è pronto a fare l’inimmaginabile per obbedire; nessuno è disposto a fare l’inimmaginabile tranne noi.

Come potevo rifiutare all’Increato ciò che avevo spontaneamente dato all’Autarca quando avevo decapitato Santa Katharine?

XXXII

AL CASTELLO

Le rimanenti isole erano adesso separate, e, sebbene le barche si muovessero in mezzo a loro e su ogni ramo ci fossero vele gonfie di vento, non potevo fare a meno di provare la sensazione che fossimo immobili sotto le nubi e che il nostro moto fosse solo l’ultima illusione di una terra che stava sprofondando.

Molte delle isole fluttuanti che avevo visto in precedenza quel giorno erano state lasciate indietro come rifugio per le donne ed i bambini. Ne rimanevano una mezza dozzina, ed io mi trovavo sul punto più alto di quella di Llibio, che era la più grande delle sei. Oltre al vecchio ed a me, l’isola trasportava sette combattenti, mentre le altre ne portavano quattro o cinque ciascuna. In aggiunta alle isole, c’erano circa trenta barche, ciascuna equipaggiata con due o tre uomini.

Non volevo ingannarmi con il pensiero che i nostri cento uomini, con i coltelli e le lance da pesca costituissero una forza formidabile. Una sola manciata dei dimarchi di Abdiesus li avrebbe sparpagliati come paglia. Ma essi erano miei seguaci, e quello di guidare uomini in battaglia è un sentimento che non ha uguali.

Non un bagliore splendeva sulle acque del lago, fatta eccezione per la luce riflessa che cadeva dalla miriade di foglie della Foresta della Luna, a cinquantamila leghe di distanza. Quelle acque mi facevano pensare all’acciaio, oliato e lucidato. Il vento era debole e non creava spuma, anche se le sospingeva in lunghe onde simili a colline di metallo. Dopo qualche tempo, una nube oscurò la luna, ed io mi chiesi se la gente del lago al buio avrebbe perso l’orientamento. Tuttavia, per il modo in cui maneggiavano le imbarcazioni, avrebbe potuto essere anche mezzogiorno, e, sebbene barche ed isole venissero spesso a trovarsi vicine, in tutto il viaggio non ne vidi mai due che corressero anche il minimo pericolo di una collisione.

L’essere trasportato in quel modo, nel mezzo del mio arcipelago, senza altro suono tranne il sussurro del vento ed il battito dei remi che affondavano e si sollevavano con la regolarità di un orologio, senza che si percepisse altro movimento a parte il gentile dondolio delle onde, avrebbe potuto essere una cosa rilassante o addirittura soporifica, perché ero stanco, anche se avevo dormito un poco prima della partenza, ma il freddo dell’aria notturna ed il pensiero di ciò cui stavamo andando incontro mi tenevano ben sveglio.

Né Llibio né alcuno degli isolani era stato in grado di darmi altro se non vaghissime informazioni in merito all’interno del castello che stavamo per assalire. Non avevo idea se l’edificio principale fosse o meno una vera fortezza, e cioè una torre fortificata abbastanza alta da permettere di vedere al di là del muro di cinta, e non sapevo neppure se c’erano altri edifici in aggiunta al primo (un barbacane, per esempio), o se il muro fosse rinforzato da torrette o quanti difensori potevano esservi. Il castello era stato costruito nell’arco di due o tre anni da mano d’opera nativa, quindi non poteva essere formidabile, diciamo, come il Castello di Acies; ma un luogo che avesse avuto anche solo un quarto della sua solidità sarebbe stato inespugnabile per noi.