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Allora conobbi la speranza, e balzai in avanti, e, nel balzare, persi l’equilibrio a causa di un pietra rotta e viscida per la pioggia. Volai quasi giù, ma all’ultimo momento mi afferrai al parapetto… in tempo per vedere la testa luminosa della mazza del gigante discendere su di me. Istintivamente, sollevai Terminus Est per parare il colpo.

Ci fu un urlo tale che sarebbe potuto provenire dalle gole degli spettri di tutti gli uomini e di tutte le donne che quella spada aveva ucciso… poi seguì un’esplosione assordante.

Rimasi stordito per un momento, ma anche Baldanders era stordito, e gli uomini del lago, ora che l’incantesimo della mazza era spezzato, stavano sciamando verso di lui lungo il camminamento da entrambi i lati… Forse l’acciaio della spada, che aveva una sua frequenza di suono e che, come avevo spesso notato, vibrava con meravigliosa dolcezza se sfiorato con un dito, era stato troppo per il meccanismo, quale che fosse, che conferiva alla mazza del gigante i suoi strani poteri. Forse la sua lama, più tagliente di quella di un chirurgo, era penetrata nella testa della mazza. Qualsiasi cosa fosse accaduta, la mazza era scomparsa, ed io tenevo in mano solo l’impugnatura della spada, da cui sporgeva meno di un cubito di metallo frantumato. L’hydrargyrum, che aveva per tanto tempo lavorato silenziosamente all’interno della lama, scaturiva ora da essa in lacrime d’argento.

Prima che mi potessi sollevare, gli uomini del lago stavano balzando al disopra di me. Una lancia si conficcò nel torace del gigante, ed una mazza lo colpì al volto. Due uomini vennero precipitati, urlanti, giù dalla parete da una mossa del braccio di Baldanders, ma altri gli furono subito addosso. Lui se li scrollò di torno mentre io mi alzavo faticosamente in piedi, ancora comprendendo solo in parte quello che era accaduto.

Per un istante, Baldanders rimase immoto sul parapetto, poi balzò giù. Senza dubbio, dovette ricevere un grande aiuto dalla cintura che portava, ma la forza dei muscoli delle sue gambe doveva essere enorme. Lentamente, lentamente, lui s’inarcò sempre più in fuori e sempre più in giù. Tre uomini, che gli erano rimasti aggrappati troppo a lungo, caddero e morirono sulle rocce del promontorio.

Alla fine, cadde anche lui… pesantemente, come se fosse una sorta di nave volante che avesse perso il controllo. Bianche come il latte, le acque del lago eruppero in fuori e poi si richiusero su di lui. Qualcosa che si contorceva come un serpente e talvolta rifletteva la luce sorse dall’acqua e salì nel cielo fino a svanire fra le cupe nubi: indubbiamente, si trattava della cintura. Tuttavia, sebbene gli isolani rimanessero in attesa con le lance pronte, la testa del gigante non riapparve più al disopra delle acque.

XXXVIII

L’ARTIGLIO

Quella notte, gli uomini del lago saccheggiarono il castello; io non mi unii a loro e non dormii all’interno di quelle mura. Al centro della macchia di pini dove avevamo in precedenza tenuto consiglio, trovai un punto così ben protetto dai rami che il sottostante tappeto di aghi secchi era ancora asciutto. Mi distesi là dopo aver lavato e fasciato le mie ferite. L’impugnatura della spada che era stata mia, e prima ancora del Maestro Falaemon, giaceva accanto a me, cosicché ebbi l’impressione di dormire con una cosa morta; ma questo non mi procurò alcun sogno.

Mi destai con la fragranza dei pini nelle narici. Urth aveva volto quasi completamente la faccia verso il sole; il corpo mi faceva male, e gli innumerevoli tagli causati dalle schegge di pietra bruciavano e pungevano, ma quella era la giornata più calda che avessi mai sperimentato da quando avevo lasciato Thrax per avventurarmi sulle montagne. Uscii dal boschetto e vidi il Lago Diuturna che brillava al sole e l’erba novella che cresceva fra le pietre.

Sedetti su una roccia sporgente, con la massa del muro del castello di Baldanders che si levava alle mie spalle ed il lago azzurro disteso ai miei piedi; per l’ultima volta, rimossi l’estremità della lama rovinata che era stata Terminus Est dalla bella impugnatura di argento ed onice. È la lama a personalizzare una spada, e Terminus Est non esisteva più, ma io portai l’impugnatura con me per il resto del viaggio, anche se bruciai la fodera di pelle umana. Un giorno, quell’impugnatura reggerà un’altra spada, anche se non potrà essere altrettanto perfetta e non sarà mia.

Baciai ciò che rimaneva della mia lama e lo gettai nel lago.

Poi, iniziai la mia ricerca fra le rocce. Avevo solo una vaga idea della direzione in cui Baldanders aveva gettato l’Artiglio, ma sapevo che aveva mirato verso il lago, e, sebbene lo avessi visto superare il muro di cinta, ero convinto che anche un braccio possente come quello del gigante non poteva essere riuscito a far raggiungere l’acqua ad un oggetto tanto piccolo.

Scoprii ben presto, tuttavia, che se era caduto nel lago, l’Artiglio era perduto per sempre, perché l’acqua aveva una profondità di molti ells in ogni punto. Comunque, mi sembrava ancora possibile che l’Artiglio non avesse raggiunto il lago e si fosse incastrato in qualche crepaccio che ne soffocava la luminosità.

E mi misi a cercare, timoroso di chiedere agli uomini del lago di aiutarmi, e timoroso di sospendere le ricerche per riposare o mangiare, per paura che qualcun altro trovasse la gemma. Scese la notte, accompagnata dal grido del tuffolo che salutava lo svanire della luce, e gli uomini del lago mi offrirono di condurmi alle loro isole, ma io rifiutai. Essi temevano che la gente della riva arrivasse, o che stesse organizzando un attacco per vendicare Baldanders (non avevo osato dire loro che sospettavo che il gigante non fosse morto e che vivesse ancora sotto le acque del lago), e così alla fine, dietro mio incitamento, mi lasciarono solo, a continuare a frugare carponi fra le rocce appuntite del promontorio.

Poi, fui troppo stanco per continuare a cercare al buio, e mi sistemai su una sporgenza di pietra per attendere lo spuntare del giorno. Di tanto in tanto, mi sembrava di vedere una luce azzurra brillare in qualche fessura vicina o nelle acque sottostanti, ma ogni volta che tentavo di stendere la mano per prenderla o cercavo di alzarmi e camminare verso il bordo della sporgenza per guardare giù, mi svegliavo con un sussulto e scoprivo di aver sognato.

Un centinaio di volte mi domandai se qualcun altro avesse trovato la gemma mentre io dormivo sotto il pino, ed imprecai contro me stesso per aver dormito; ed un centinaio di volte ancora rammentai a me stesso come sarebbe stato meglio per la gemma essere rinvenuta da qualcuno piuttosto che andare perduta per sempre.

Come le carogne, d’estate, attirano le mosche, così la corte attira saggi spuri, filosofi, ed acosmisti che vi rimangono fintanto che i loro scopi ed il loro ingegno sono in grado di mantenerli, nella speranza (all’inizio) di essere ricevuti dall’Autarca e (in seguito) di ottenere la posizione di tutore presso qualche famiglia di esaltati. A sedici anni circa, Thecla si era sentita attratta, come credo accada spesso alle giovani donne, dalle loro letture di teogonia, todicia e simili, e ne rammento in particolare una in cui una pheobad proponeva come verità estrema l’antica teoria filosofica dell’esistenza di tre Adonai, quella della città (o del popolo), quella dei poeti e quella dei filosofi. Il suo ragionamento era che fin dall’inizio della consapevolezza umana (se tale inizio c’era mai stato) numerose persone, nelle tre categorie, avevano tentato di penetrare il segreto del divino. Se esso non esiste, lo avrebbero scoperto già da molto tempo; se esso esiste, non è possibile che la Verità stessa li guidi fuori strada. Eppure, le credenze della popolazione, le introspezioni dei rapsodisti e le teorie dei metafisici sono così divergenti che ben pochi di loro riescono anche lontanamente a comprendere quel che dicono gli altri, e qualcuno, che non sapesse nulla di nessuna delle loro idee, potrebbe ben credere che non esista fra esse la minima connessione.