Marion Zimmer Bradley
La spada di Aldones
A Rick Sneary
CAPITOLO 1
RITORNO A THENDARA
Volavamo più veloci della notte.
Quando la Croce del Sud era atterrata su Darkover, sul campo di atterraggio di New Chicago era ancora buio, e io, non appena sceso dall'astronave, mi ero subito imbarcato sull'aereo navetta che doveva portarmi a Thendara. Ora, volando verso la linea dell'alba, l'aria davanti all'aereo cominciava a rischiararsi alle prime luci dell'aurora.
Sotto i miei piedi, la fusoliera si inclinò: l'aereo aveva incontrato una corrente d'aria proveniente dagli Hellers. Dall'oblò vidi passare una successione di cime che uscivano dalla coltre di nubi; ma, quando cercai di individuare qualche vetta in particolare, rimasi deluso. Eravamo troppo in alto per riconoscerle.
Dopo sei anni in cui ero passato da un sistema solare all'altro, facevo ritorno a casa; ma non provavo nessun sentimento particolare, esattamente come quando ero sceso su uno qualsiasi degli altri pianeti da me visti…
Nessuna nostalgia di casa, nessuna agitazione, neppure il riaffiorare di qualche vecchio rancore, di qualche passato risentimento, benché fossero un mio diritto.
In realtà non avevo alcun desiderio di ritornare su Darkover, ma l'idea del ritorno mi era talmente indifferente che non avevo neppure fatto lo sforzo di protestare, quando mi era stato chiesto di rientrare sul pianeta.
Sei anni prima, avevo lasciato Darkover con l'intenzione di non farvi più ritorno. Poi, i disperati messaggi del Reggente mi avevano rincorso su tutti i pianeti che avevo visitato: dalla Terra a Samarra e a Vainwal.
Costava un occhio della testa trasmettere messaggi interspazio servendosi del sistema di ripetitori terrestre, e il Vecchio Hastur — il Reggente Comyn, signore dei Sette Regni — non aveva perso tempo in spiegazioni. Semplicemente, mi aveva dato un ordine. Ma non riuscivo a immaginare perché mi volessero indietro.
Quando me n'ero andato, mi erano sembrati felicissimi di liberarsi di me.
Presto, però, dovetti rinunciare a guardare il cielo sempre più chiaro che si scorgeva dal finestrino. Chiusi gli occhi e, con la mano buona, mi massaggiai la tempia, premendo forte.
Come sempre, prima del viaggio tra le stelle, avevo preso un forte sedativo, e adesso il medicinale iniettatomi dal medico dell'astronave cominciava a non avere più effetto. La stanchezza allentava le mie barriere, e un filo di pensieri, irritante come una puntura di spillo, prese ad arrivare fino a me.
Riuscivo a sentire con la mente le occhiate di straforo che mi lanciavano gli altri passeggeri, stupiti e incuriositi del mio aspetto. Si chiedevano la ragione della cicatrice sulla mia faccia, della mancanza di una mano (il mio braccio terminava poco dietro il polso e tenevo chiusa la manica mediante una spilla).
E soprattutto, guardando i miei capelli rossi, qualcuno si chiedeva chi ero, o meglio che cos'ero, con il sospetto che fossi un lettore della mente. Un fenomeno da baraccone. Un Alton, appartenente a una delle Sette Famiglie dei Comyn, l'autarchia ereditaria che dominava Darkover fin da prima dell'arrivo dei terrestri.
Eppure, non ero esattamente uno di loro. Come tutti sapevano — ogni bambino dei Comyn conosceva quella storia — mio padre Kennard Alton aveva fatto qualcosa di sconvolgente, quasi di riprovevole. Aveva sposato, con un onorevole matrimonio di catenas, una donna terrestre, appartenente all'odiato impero che dominava tutti i pianeti conosciuti.
L'aveva potuto fare, senza essere esiliato, soltanto perché apparteneva alla massima aristocrazia del pianeta. Nel Consiglio dei Comyn avevano bisogno di lui. Subito dopo il Vecchio Hastur, Kennard Alton era il più importante uomo di Darkover. Era perfino riuscito a farmi accettare come suo erede. Ma i Comyn avevano tirato un grosso respiro di sollievo, quando me n'ero andato dal pianeta.
E adesso mi avevano ordinato di ritornare a casa.
Seduti davanti a me, due terrestri con l'aria dello studioso — probabilmente due ricercatori del Servizio Antropologico, rientrati da un viaggio di studio — ingannavano il tempo del tragitto risuscitando l'annoso problema delle origini della vita sui vari pianeti in generale, e su Darkover e la Terra in particolare.
Non l'origine dell'uomo su Darkover, che per i terrestri non costituiva un problema: l'identità tra darkovani e terrestri era dovuta semplicemente al fatto che Darkover era stato colonizzato da un'antica astronave terrestre che aveva fatto naufragio. Nel corso delle generazioni, poi, i coloni avevano perso i contatti con la madrepatria, e s'erano dimenticati di quell'antico incidente.
Gli attuali darkovani amavano attribuire la loro origine agli amori del dio Hastur, Signóre della Luce; ma sulla Terra, fin dalla “riscoperta” del pianeta, era stata rintracciata la documentazione di quell'antico viaggio, e le prove erano inoppugnabili: perfino i cognomi dei naufraghi corrispondevano ai nomi di famiglia dei vari clan darkovani.
Comunque, studiando sulla Terra, avevo notato come l'origine della vita sui vari pianeti non fosse stata chiarita in modo soddisfacente. E adesso, come sempre, uno dei due terrestri sosteneva la tesi dell'evoluzione parallela, l'altro quella della super-razza inseminatrice.
Quest'ultima teoria non si basa su alcuna prova, e perciò, più che una “teoria”, è una semplice “ipotesi”, ma piace ai terrestri perché basa l'intero universo su una pianificazione e una centralizzazione — due idee per cui i terrestri vanno in sollucchero — e pressappoco si può riassumere così: su qualche pianeta (ancora sconosciuto), due o tre miliardi di anni fa è sorta una razza intelligente che ha colonizzato l'intera Galassia, spargendo nei vari pianeti molecole capaci di dare origine a forme viventi.
Su ciascun pianeta sarebbe stata sparsa una molecola diversa, perché era un esperimento. In seguito, l'antica razza si è evoluta in un modo che noi non possiamo immaginare, ma ha continuato a tenere d'occhio i suoi esperimenti di creazione della vita, intervenendo di tanto in tanto per correggere e indirizzare l'evoluzione.
Sono idee che risalgono ad ancor prima del volo spaziale e che da allora non sono cambiate, e non erano certo una novità, almeno per me, ma io cercai di concentrarmi mentalmente sulla conversazione dei due terrestri e di non badare alla curiosità di quanti mi circondavano. In mezzo a gente non abituata a schermare i propri pensieri — e il normale terrestre non li scherma mai — un telepatico si sente sempre a disagio, come se fosse in mezzo a una piazza dove tutti gridano.
Il dispersionista, quello convinto dell'origine artificiale della vita, tirava fuori tutte le vecchie “prove” (in gran parte, semplici leggende, e alquanto manipolate) dell'esistenza di antiche razze superiori all'uomo, mentre il parallelista citava le somiglianze tra le razze non umane dei vari pianeti, che in genere sono di forma vagamente umanoide, per dire che la vita sorge da sola e che tende sempre a dare una forma analoga a quella umana.
«Anche qui su Darkover», diceva, «benché sia difficile raccogliere le prove, su un pianeta così barbaro e arretrato, che non è mai progredito oltre la cultura feudale e che oggi stenta a resistere all'impatto del nostro Impero, le razze non umane…»
Avevo già sentito molte volte quei discorsi — “l'uomo è la forma di vita più alta, l'Impero Terrestre è la forma di governo perfetta” — e a dire il vero non vedevo molta differenza tra lui e il suo collega convinto della pianificazione universale, perché solo ai terrestri poteva venire in mente la strana idea che gli dèi fossero, in ultima analisi, dei pianificatori come i loro burocrati. Così, soffocando un moto di fastidio, me ne disinteressai.
I terrestri sono impareggiabili, nel vivere con i paraocchi. Era stupefacente, mi dissi, come quei due, anche dopo mesi e anni di permanenza sul pianeta, si rifiutassero di conoscere il punto di vista darkovano e pensassero sempre a Darkover come a un pianeta barbaro, arretrato, feudale.