Hastur mi parve preoccupato. Fece segno a Dyan e a Lerrys di tacere.
«Puoi farlo, Lew?» mi chiese. «Sei un Alton, e un lettore della mente, ma neppure tu potresti fare una cosa simile, da solo. Ti occorrerebbe un secondo fuoco mentale…»
«Conta proprio su questo», ironizzò Dyan. «È un semplice bluff. È il solo Alton adulto che sopravviva…»
Dall'ombra, qualcuno disse: «No, non è il solo».
Marjus si alzò e io lo fissai con stupore. Credevo che fosse uscito con gli altri. Che osasse sfidare il più temuto tra tutti i poteri dei Comyn?
Dyan rise.
«Tu… terrestre?» gli chiese. Lo disse come un insulto.
Io non ero disposto a ritirarmi sconfitto.
«Vuoi che spegniamo l'attenuatore», chiesi, «e che mio fratello provi la sua Dote su di te, Ardais?»
Questo era davvero un bluff. Non sapevo assolutamente se Marjus avesse la Dote degli Alton, o se fosse destinato a impazzire e morire, una volta che la mia mente fosse entrata con la forza nella sua. Ma non lo sapeva neanche Dyan, che impallidì e finì per abbassare gli occhi.
«Comunque, il suo bluff è un altro», intervenne Lerrys. «Per attivare un luogo come quello, gli occorre la matrice di Sharra, che, come tutti sappiamo, è andata distrutta. Con che assurdità ci vuoi spaventare, Lew? Non siamo bambini, da rabbrividire per un'ombra. Sharra! Ecco dov'è Sharra!» esclamò, schioccando le dita.
A quel punto, gettai al vento ogni cautela.
«Distrutta un corno!» gridai. «In questo momento, è nella mia stanza!»
Tutti, nel cerchio, trattennero il fiato.
«L'hai tu?» chiese Lerrys.
Io annuii, lentamente. Non mi avrebbero più dato del bugiardo.
Poi colsi lo sguardo soddisfatto di Dyan.
E capii che non era affatto stata una mossa intelligente da parte mia.
CAPITOLO 4
IL RITORNO DI KADARIN
Marjus si sporse a guardare che cosa facessi, mentre io estraevo la spada, ancora isolata, e la posavo sul pomo della mia sella.
«Vuoi aprire qui la mia Dote?» chiese. Attorno a noi, la sottile aria del mattino era immobile come la sua faccia. Alle nostre spalle si alzava il monte; dagli Hellers veniva fino a noi l'odore pungente del fumo: a una distanza indeterminabile da noi, qualche bosco doveva essere stato distrutto da un incendio. Dietro di noi, nella radura, gli altri Comyn attendevano, in sella. Io avevo abbassato le barriere, e sentivo l'urto delle loro emozioni. Ostilità, curiosità, incredulità e disprezzo caratterizzavano gli Ardais, gli Aillard e i Ridenow; simpatia e preoccupazione giungevano dagli Hastur e, curiosamente, da Lerrys Ridenow.
Avrei preferito fare tutto in privato. I pensieri che mi giungevano da quegli osservatori, a me ostili, avrebbero finito per togliermi il coraggio. E il fatto che la vita di mio fratello dipendesse dal modo in cui fossi riuscito a controllare i miei nervi era un altro motivo di agitazione.
Rabbrividii. Se Marjus fosse morto — e c'era un forte rischio che morisse — solo la testimonianza dei Comyn avrebbe potuto salvarmi da un'accusa di omicidio. Tutt'e due correvamo un forte rischio, e io avevo paura.
La messa a fuoco — la prima comparsa, in ogni nuovo Alton — della Dote della nostra Famiglia non è un procedimento semplice, e deve essere imposta a forza dall'esterno, da un Alton che la possegga già. Il fatto che tutt'e due le persone siano consapevoli di ciò che fanno e che lo facciano volontariamente non lo rende più facile, neppure per due telepatici esperti; lo rende solo possibile.
La Dote degli Alton è un particolare tipo di un'altra Dote che di tanto in tanto compare tra i lettori del pensiero e che non è mai stata attribuita a una Famiglia in particolare: quella di catalizzatore telepatico, ossia la capacità di sviluppare le doti telepatiche delle altre persone.
Ciò che, in Consiglio, avevamo promesso di fare per eliminare il pericolo di Sharra si può spiegare in poche parole: collegare le nostre menti. Ma non in un normale contatto telepatico; e neppure nel rapporto forzato che un Alton (e un Hastur) può imporre a un'altra mente per trasmetterle un pensiero o per bloccarla. Occorreva un rapporto totale e reciproco: mente conscia e mente subconscia, centri telepatici e psicocinetici, coordinazione e funzioni energetiche, in modo da funzionare a tutti gli effetti come un solo cervello in due corpi.
Per poterlo fare, tuttavia, prima dovevo portare alla luce, in Marjus, la Dote degli Alton. Occorreva penetrare, nei primi istanti, con la forza nella sua mente, e farla entrare in risonanza con la mia. Normalmente quella risonanza forzata è pericolosissima — ed è per questo che tutti temono gli Alton — ma la nostra Dote fa in modo che un particolare centro cerebrale entri in fase con quello dell'Alton adulto e diventi uguale a esso.
In un vero Alton, quel centro è sempre plastico, modellabile, finché non viene “messo a fuoco” da un altro Alton; in tutti gli altri, invece, ha già una sua funzione, e la sovrapposizione forzata lo distrugge, causando la pazzia e, in pochi istanti, la morte.
Mio padre aveva fatto con me quel che volevo fare con Marjus: una volta sola, e per circa trenta secondi, con la mia piena consapevolezza che rischiavo di morire. Ma era l'unica prova accettabile del fatto che fossi un vero Alton. E, grazie a quella prova, mio padre aveva costretto i Comyn ad accettarmi fra loro. Io mi ero addestrato per giorni interi, e lui aveva usato tutta la sua abilità. Marjus, invece, vi arrivava pressoché senza preparazione.
Mi pareva di vedere mio fratello per la prima volta. La differenza di età, la sua faccia da straniero e i suoi bizzarri occhi me l'avevano sempre reso estraneo; adesso, la consapevolezza che poteva morire sotto la mia mente, entro pochi minuti, me lo faceva sembrare meno reale: un'ombra, la comparsa di un sogno.
«Vuoi rimandare, Marjus?» gli chiesi, con un'incrinatura nella voce.
Mi guardò con aria divertita.
«Sei geloso?» mi chiese a bassa voce. «Vuoi tenete solo per te i privilegi del laran? Non vuoi altri Alton in consiglio, vero?»
Senza altri preamboli, gli rivolsi la domanda cruciale.
«Ma tu possiedi», gli chiesi, «la Dote degli Alton?»
Lui alzò le spalle.
«Non ne ho la più pallida idea», rispose. «Non ho mai cercato di scoprirlo. Con tutto quello che è successo, mi hanno sempre fatto capire che sarebbe stata una grave insolenza da parte mia.»
Sentii un brivido. In quella frase era racchiusa tutta la sua vita: avrei dovuto immaginarlo. C'era la possibilità che quel giorno, invece di dargli la morte, gli dessi la piena condizione di Alton e di Comyn, e se lui pensava che il gioco valesse candela, non avevo diritto di oppormi. Mio padre aveva fatto la stessa scommessa con me, e l'aveva vinta. Abbassai la testa e cominciai a togliere dalla gemma lo strato isolante. Per fare quello che intendevo fare, occorreva una pietra matrice, e non potevo essere in fase con nessun'altra pietra, finché ero in fase con la matrice di Sharra.
«È una vera spada?» chiese Derik Elhalyn, accostandosi a noi.
Io annuii, ma afferrai l'elsa e la ruotai con forza. Si svitò e potei liberare la gemma incastonata sul pomo. Quando la toccai, sentii come una mano che mi serrasse il petto.
«La lama è quella di una spada», spiegai, «ma l'impugnatura serve anche per bloccare la matrice. Puoi guardarla senza pericolo, se vuoi.»
Così dicendo, gli porsi il pezzo che avevo svitato, ma lui si ritrasse istintivamente.
Vidi che gli altri Comyn si sforzavano di non sorridere. Sotto un certo aspetto, però, non era affatto divertente che Derik, prossimo Signore dei Comyn, fosse un fifone. Il vecchio Hastur, che intanto era venuto a guardare, si fece dare i due pezzi e li infilò l'uno nell'altro.
«Con il platino e gli zaffiri di questa impugnatura», disse, «si potrebbe comprare mezza città. Ma sono lieto che Lew non mi abbia passato la parte più pericolosa.»