Sollevò le mani e mi allontanò da sé, ciecamente.
«Posso sposare Beltran, e mantenere il mio potere per aiutare te e i Comyn, solo perché non lo amo, capisci?»
Capivo. La lasciai e feci un passo indietro, fissandola costernato. Il lavoro con le matrici, per un uomo, ha i suoi aspetti frustranti. Ma non mi ero mai soffermato a pensare (o meglio, non me ne era mai importato nulla) dei particolari fastidi che poteva dare a una giovane donna. Prima che potessi protestare, Callina si rivolse a Regis.
«Ashara ci ha chiamati», gli disse. «Vieni anche tu?»
«Non ora», rispose Regis.
In quelle poche ore, il giovane Hastur era cambiato: sembrava più maturo, più grave. Sorrideva come sempre, ma io mi sentivo a disagio in sua presenza. Provavo un senso di colpa quando mi accorgevo che aveva innalzato uno schermo mentale nei miei riguardi, ma in un certo senso preferivo che fosse così.
Una cameriera avvolse Callina in un mantello simile a un'ombra grigia. Mentre uscivamo, e mentre scendevamo la scala, Linnell rimase accanto alla tenda, a guardarci e a sorriderci. Le luci colorate dell'interno, riflesse dalla sua veste, le diedero l'aspetto di una statua color dell'arcobaleno, avvolta in un'aureola dorata. All'improvviso, per un momento, la vaga inquietudine che provavo da qualche minuto prese forma in un pensiero netto, uno di quei lampi di chiaroveggenza di cui, nei momenti di tensione, tutti i lettori dei pensieri fanno l'esperienza.
Linnell era condannata!
«Lew, che cos'hai?» mi chiese Callina.
Io battei le palpebre. La certezza, l'istante in cui il mio cervello aveva lasciato la consueta traccia spazio-temporale, era finito, e rimaneva solo la confusione, il senso di tragedia. Quando alzai di nuovo gli occhi, la tenda era chiusa e Linnell era rientrata nella stanza.
All'esterno cadeva la solita pioggia serale. Nella vecchia città di Thendara, ai piedi del monte, le luci erano spente, ma la Zona Terrestre splendeva di forti insegne al neon, rosse, gialle, verdi, che illuminavano la notte. Io mi fermai accanto alla ringhiera.
«Preferirei essere laggiù», dissi con voce stanca, «o in un altro posto qualunque, tranne questo castello infernale.»
«Anche nella Zona Terrestre?» chiese lei.
«Anche nella Zona Terrestre», risposi.
«Allora, perché non ci vai?» continuò. «Nessuno ti trattiene qui, se non vuoi più starci.»
Mi voltai verso di lei. Il vento le scuoteva le falde del mantello, che battevano come ali; i capelli, come una fine pioggia, le velavano la faccia. Girai la schiena alle luci e la attirai a me. Per un attimo cercò di resistere, poi, all'improvviso, mi strinse selvaggiamente; le sue labbra cercarono le mie come se fosse in preda a un terrore disperato. Quando ci staccammo, tremava come una foglia.
«Che cosa faremo, Lew?» mi chiese. «Che cosa faremo, adesso?»
Con un gesto brusco, indicai le luci al neon.
«Andiamo a sposarci nella Zona Terrestre», le dissi. «Mettiamo i Comyn davanti al fatto compiuto, e lasciamo che si cerchino un'altra marionetta con cui giocare.»
Lentamente, il suo sguardo parve spegnersi. Voltò la schiena alla città e indicò le montagne lontane. Di nuovo sentii ritornare l'illusione: Un fumo bianco e sottile, una strana fiamma…
«Laggiù», disse, «il fuoco di Sharra brucia ancora, Lew. Tu non sei più libero di quanto non lo sia io.»
La presi sottobraccio e lentamente ritornai alla ragione: tornai ad accettare il mio dovere. La pioggia che cadeva sulla nostra faccia era gelida; ci avviammo in silenzio verso la massa buia della Torre.
Il vento, interrotto nella sua corsa dagli spigoli del castello, scagliava addosso a noi scrosci di pioggia. Attraversammo cortili chiusi da muri e lunghi porticati, e infine ci fermammo davanti a una porta ad arco, che dava accesso a quella che sembrava solo una nicchia. Gallina mi fece segno di entrare, e il pavimento, sotto di noi, ci sollevò come se fossimo stati in un ascensore della Zona Terrestre.
La Torre, secondo la leggenda, era stata costruita per la prima Guardiana, quando Thendara non era ancora la capitale e gli Hastur risiedevano ancora a Hali. Per tradizione la sua Guardiana più anziana prendeva sempre il nome di “Ashara”, e l'attuale doveva avere almeno un'ottantina di anni, perché era già Guardiana quando mio padre aveva fatto il suo tirocinio nella Torre, ma la tradizione vuole che le Guardiane vengano sepolte in tombe senza nome, in luoghi conosciuti solo dai membri del loro Cerchio, e perciò è difficile sapere la loro vera età.
La Torre era molto grande: anche se ormai da decenni ospitava un solo Cerchio e gran parte delle sue stanze erano vuote, un tempo aveva ospitato fino a tre Cerchi di matrici. Noi continuammo a salire per parecchi minuti, ma alla fine ci fermammo. Davanti a noi c'era una porta di cristallo; non una tenda, o un pannello luminoso, ma una vera e propria porta.
Entrammo in un ambiente che sembrava l'essenza del blu. Luci che sgorgavano da punti invisibili venivano riflesse e rifratte dalle pareti di cristallo in modo da dare l'impressione che la stanza fosse priva di dimensione; che fosse nello stesso tempo immensa e minuscola. L'azzurro dell'illuminazione pareva far vibrare l'aria e lo stesso pavimento, sotto i nostri piedi. Era come nuotare in un lago azzurro o nella fiamma di una gemma di quel colore.
«Entrate», disse una donna, con una voce cristallina come l'acqua che, d'inverno, scorre sotto il ghiaccio. «Vi aspettavo.»
Solo allora riuscii a mettere a fuoco la vista, in mezzo a quella luce azzurra che, pur non essendo intensa, abbagliava gli occhi perché impediva loro di posarsi su un punto preciso. Riuscii a vedere un grande trono di cristallo, su cui sedeva una donna: una figura minuscola, quasi infantile, con una veste che rifletteva la luce e la faceva sembrare trasparente.
«Ashara», mormorai, e chinai la testa davanti alla Guardiana dei Comyn.
I suoi lineamenti pallidi, privi di rughe come quelli di Callina, parevano incorporei, tanto erano puri. E nello stesso tempo erano vecchi, come se il tempo avesse finito per spianarle anche le rughe. Anche gli occhi, grandi e allungati, parevano incolori, benché, alla normale luce del sole, dovessero essere azzurri. Tra le due Guardiane c'era una vaga, indefinibile aria di famiglia, come se Ashara fosse un ritratto stilizzato di Callina e questa fosse un embrione di Ashara, destinato, con il tempo, a diventare come lei.
Anch'io cominciai a credere che fosse davvero immortale, come sussurrava il popolino; che vivesse su Darkover fin dal tempo in cui vi abitava il Figlio della Luce.
Disse, a bassa voce: «Così, tu sei stato sull'altra sponda del mare delle stelle, Lew Alton».
Non sarebbe onesto dire che la sua voce non fosse gentile. Quella voce non era abbastanza umana per esserlo. Dava l'impressione che lo sforzo di parlare con persone normali, viventi, fosse troppo grande per lei; come se la nostra presenza turbasse la pace luminosa, cristallina, che doveva sempre regnare in quella stanza.
Callina, che doveva essere abituata a quel genere di conversazione — almeno, così supposi — le rispose con soggezione.
«Tu vedi ogni cosa, Madre», disse. «Tu sai tutto quello che abbiamo visto.»
Negli occhi di Ashara comparve un guizzo di vita.
«No», rispose, «neppure io posso vedere tutto. E tu mi hai negato l'unica possibilità di aiutarti, Callina. Sai che adesso non ho alcun potere, all'esterno di questo luogo.»
Ora la sua voce era un po' più vivace, come se si stesse progressivamente svegliando alla nostra presenza.
Callina le rivolse un profondo inchino.
«Eppure», le disse, con un filo di voce, «ti supplico di aiutarmi con la tua saggezza, Ashara.»
La vecchia sacerdotessa sorrise con grande distacco.
«Parla», disse.
Ci sedemmo ai piedi di Ashara, su uno sgabello di pietra, e le parlammo degli avvenimenti dei giorni precedenti. Infine le rivolsi la domanda che più mi preoccupava.