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Io feci una smorfia.

«Avrà un brutto shock in qualsiasi caso», mormorai.

Tuttavia, riuscii a sollevarla senza difficoltà: era leggera come Linnell. Callina mi tenne aperta la tenda, mi mostrò il letto su cui avrei dovuto metterla.

La coprì con alcune soffici coperte, perché quella stanza era più fredda del laboratorio, e, mentre accendeva il caminetto, si girò verso di me.

«Mi chiedo da dove provenga», disse.

«Viene certamente da un pianeta con la gravità uguale a quella di Darkover, e con un sole non troppo luminoso. Proxima è da escludere, altrimenti avrebbe la pelle più abbronzata. Potrebbe essere di Vialles, di Wolf o anche della Terra. Oppure di qualche pianeta lontano, che non conosco.»

Quando l'avevo sentita parlare, dall'accento mi era parsa una terrestre; tuttavia non avevo mai raccontato a Callina il mio incontro allo spazioporto, e non avevo voglia di raccontarglielo ora.

«Lasciamola dormire: si sveglierà quando le sarà passato lo shock», dissi. E aggiunsi: «E anche noi faremmo bene a dormire.»

Callina mi raggiunse accanto alla soglia e, tenendosi al mio braccio, guardò un'ultima volta la ragazza, prima di uscire.

Era stanca, ma mi parve ancor più incantevole, dopo avere condiviso con lei i rischi e le fatiche. Mi chinai su di lei e la baciai.

«Callina», mormorai. Era quasi una domanda, ma lei lasciò il mio braccio, gentilmente, e io non insistetti. Lei aveva ragione; tutt'e due eravamo esausti, dopo avere lavorato sulle matrici.

Uscii senza guardarmi indietro e, invece di andare a mangiare qualche cibo molto nutriente che mi ridesse le forze, come si insegnava a tutti coloro che operavano con le matrici, scesi nel cortile e cominciai a camminare avanti e indietro.

Era ormai quasi l'alba, e quando a est comparvero le prime luci, presi la mia decisione e andai alla Torre.

Temevo che, senza Callina al mio fianco, avrei trovato chiusa la stanza di cristallo azzurro, o che Ashara si fosse ritirata in qualche luogo inaccessibile. Invece, la vidi al suo posto, sul trono, e tale era l'illusione di quelle strane luci, o la stanchezza dei miei occhi, che mi parve più giovane, meno distante: mi parve quasi uguale a Callina, ma a una Callina strana, fredda e inumana.

Non potevo pensare chiaramente, ma alla fine riuscii a rivolgerle la domanda.

«Tu sei in grado di vedere nel tempo», le dissi. «Ti prego, quella bambina che, secondo Dyan, è mia figlia…»

«È davvero tua figlia», rispose Ashara.

«E chi…?»

«Capisco», rispose lei. «Non hai mai avuto donne, tranne la comynara Diana Ridenow, dopo la morte della tua Marjorie Scott.»

Io rimasi a bocca aperta per lo stupore, ma lei continuò, imperturbabile.

«No, non te l'ho letto nella mente», mi disse. «Avevo pensato che la ragazza Ridenow potesse essere addestrata come… come ho addestrato Gallina, ma poi ho constatato che non poteva esserlo.

«Non m'importa della tua moralità o di quella di Diana; è solo una questione di collegamenti nervosi ancora da plasmare. Una volta fissati da un'esperienza sensuale, non sono più flessibili come quelli dell'area cerebrale caratteristica di voi Alton.

«Il Reggente Hastur», proseguì, con voce priva di qualsiasi emozione, «non era disposto ad accettare la nuda parola di coloro che gli hanno portato la bambina; così, l'ha portata da me perché la controllassi. È qui nella Torre. Puoi vederla. È tua figlia. Seguimi.»

Con mia grande sorpresa — non so perché, ma avevo avuto l'impressione che Ashara non potesse lasciare la sua strana sala di cristallo azzurro — si alzò e varcò un'altra delle strane porte di cristallo. La seguii e mi trovai in una camera normalissima, circolare. Una delle creature pelose non umane che servono nelle Torri, dove i normali servitori non possono entrare — una sottospecie di uomo delle foreste che è sempre vissuta con l'uomo — si allontanò silenziosamente da noi.

Alla normale luce del giorno, Ashara era quasi diafana, indistinta. Mi chiesi se non fosse davvero una proiezione mentale, quella che vedevo. La stanza era disadorna, e su un lettino bianco, nel centro, c'era una bambina di pochi anni, che dormiva profondamente. I suoi capelli, sul cuscino, erano di color rosso-oro.

Mi avvicinai e la guardai con attenzione. Non poteva avere ,più di cinque o sei anni. E nel guardarla capii che Dyan aveva detto il vero. Sarebbe stato impossibile spiegarlo, tranne che a un lettore del pensiero e a un Alton, ma lo capii senza possibilità di errore: era mia figlia, nata dal mio sangue. Il viso minuto, triangolare, non aveva alcuna somiglianza con il mio, ma il mio sangue la riconobbe. Non era figlia di mio padre. E neppure di mio fratello. Era mia figlia. Carne della mia carne.

«Chi è la madre?» chiesi piano.

«Sarai più felice, per tutta la vita, se non lo saprai», mi rispose.

«Sono perfettamente in grado di sopravvivere anche a una simile conoscenza», dissi, con una smorfia. «Chi è, qualche ragazza di taverna di Carthon o degli Hellers?»

«No.»

La bambina mormorò nel sonno, poi si mosse e aprì gli occhi. Feci un passo verso di lei, poi mi voltai, con un'espressione disperata, verso Ashara. Quegli occhi, color dell'ambra e con minuscole pagliuzze dorate…

«Marjorie», dissi con voce roca, dolorosamente. «Marjorie è morta, non può…»

«Non è la figlia di Marjorie Scott», disse Ashara, con voce fredda e implacabile. «È la figlia di Thyra Scott.»

«Thyra?» chiesi, sforzandomi di non scoppiare follemente a ridere. «Impossibile! Non avrei toccato quella strega neppure con la punta delle dita, tanto meno mi sarei sognato di…»

«Comunque, è figlia tua e di Thyra», tagliò corto Ashara. «I particolari non mi sono chiari. C'è stato un periodo in cui… Non saprei. Potrebbero averti dato qualche droga, o ipnotizzato. Forse potrei scoprirlo, ma non sarebbe facile, neppure per me. Quella parte della tua mente è chiusa e sigillata. Ma il modo in cui è successo non ha alcuna importanza.»

Serrai i denti, preso da una rabbia selvaggia. Thyra! Quella strega dai capelli rossi, tanto simile a Marjorie e, nello stesso tempo, tanto diversa da lei; la migliore alleata di Kadarin! Che cosa avevano fatto, quei due? Come erano riusciti a…

«Non ha importanza», ripeté Ashara. «Quello che conta è che è figlia tua.»

Fui costretto ad accettare il fatto, ma fissai con ira la bambina. Lei si rizzò a sedere, tesa come un piccolo animale spaventato, e io provai all'improvviso un grande dolore per lei.

Avevo visto la stessa espressione sul viso di Marjorie. Sola. Perduta. Spaventata.

Dissi, con quanta gentilezza potei: «Non avere paura di me, chiya, bambina. Non sono bello a vedersi, ma non ho mai mangiato i bambini piccoli».

Lei sorrise. All'improvviso, la sua piccola faccia dal mento appuntito mi parve incantevole; un sorriso da elfo, con una fossetta accanto alle labbra. C'erano due posti vuoti tra i suoi dentini dritti.

«Mi hanno detto che sei il mio papà.»

Mi voltai verso Ashara, ma lei era sparita, e io ero solo con quella inattesa figlia. Mi sedetti accanto al lettino. Ero un po' impacciato.

«Già, proprio così. Come ti chiami, chiya?» le chiesi.

«Marja», mi rispose timidamente. «Sarebbe Marguerhia…» spiegò, faticando a pronunciare il nome, che era il nome di Marjorie, nel dialetto dei monti. «Marguerhia Kadarin, ma io preferisco Marja.»

Si mise in ginocchio e mi osservò con attenzione.

«Che cosa hai fatto dell'altra mano?» mi chiese.

Risi per la sorpresa. Non ero abituato ai bambini.

«Mi sono fatto male», spiegai, «e hanno dovuto tagliarmela.»

I suoi occhi color dell'ambra erano enormi. Si sedette sulle mie ginocchia e io le appoggiai la mano sulla spalla. Non sapevo ancora bene che cosa fare.