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Ma non potevo preoccuparmi per lui. Eravamo giunti nella Zona Terrestre, dove le strade erano più larghe e gli edifici erano illuminati dalle luci al neon. Imboccammo una strada che portava nella campagna aperta, e pochi minuti più tardi ci arrestammo con uno stridore di freni.

Davanti a noi c'era l'orfanotrofio terrestre.

Rafe bussò alla porta, e una donna alta, dall'aria severa, con abiti da terrestre, ci guardò con aria interrogativa. Rafe chiese: «Dov'è Marguerhia Kadarin?»

La donna lo riconobbe.

«Oh, capitano Scott! Come l'avete saputo?» chiese. «Vostra nipote sta male, volevamo cercare il suo tutore. Dov'è?»

«Non potete trovarlo», risposi io. «È morto. La bambina è sotto shock. Fatemi entrare, sono un tecnico delle matrici.»

La donna guardò con sospetto i vestiti terrestri, sporchi e strappati, che mi ero messo per recarmi nella Caverna Sacra; le macchie di sangue; la mia barba lunga; il mio braccio.

«Mi dispiace», disse. «Niente visite.»

Un'altra donna ci interruppe.

«Signorina Tabor», disse, «perché c'è questo baccano all'ingresso? Ricordate che c'è una bambina malata…»

Poi s'interruppe nel vedere il nostro gruppo. Solo Rafe era presentabile.

«Chi sono queste persone?» chiese.

«Io sono il padre di Marja», la supplicai. «Credetemi, a ogni secondo che passa, perdiamo la piccola possibilità…»

Poi, con sollievo, ricordai che avevo in una tasca di quell'abito il tesserino di riconoscimento che mi era stato dato al mio arrivo. Glielo mostrai.

«Ecco, questo servirà a stabilire la mia identità…» dissi.

Lei gli diede appena un'occhiata.

«Venite», mi disse, avviandosi lungo il corridoio. «L'abbiamo tolta dal dormitorio perché le altre bambine si impressionavano.»

La stanza era piccola e piena di sole. Marja era distesa in un lettino e il dottor Forth del Quartier Generale terrestre si girò a guardarci.

«Voi», disse, «dicevate di conoscere questo tipo di shock?»

«Me lo auguro», risposi, chinandomi sulla bambina. Sentii un tuffo al cuore. Era come vedere una bambina passata dal sonno alla morte. Era stesa su un fianco. Con le mani aperte, la bocca aperta, e respirava in modo quasi impercettibile. Sulla tempia le pulsava una vena azzurrognola.

Aggrottai la fronte e tentai di entrare in rapporto con la sua mente. Inutile. La trance era troppo profonda; la sua mente non era più nel corpo, e il corpo si stava spegnendo.

Chiunque lavori con le matrici sa tutto della trance da shock e delle sue cure, quando la cura è possibile.

«Avete provato…» dissi, e cominciai a elencare i soliti rimedi, anche se sapevo che, forse, una bambina così piccola non avrebbe risposto al trattamento. In genere, i bambini non hanno capacità telepatiche. Non conoscevo alcun precedente.

E se fosse rimasta in trance per troppo tempo, sarebbe stato meglio che non ritornasse, perché sarebbe cambiata troppo.

Il sole era già alto, quando mi raddrizzai e dissi stancamente: «Dove sono Regis e Diana… le due persone che sono arrivate con me? Potete chiamarle?»

Quando entrarono nella stanza, senza fare rumore, rimasero a bocca aperta, nel vedere che Marja era ancora immobile. Io mi rivolsi a loro, disperatamente.

«È l'ultima risorsa», dissi. «Noi eravamo in rapporto con una matrice simile a Sharra.»

Quando Sharra si era spezzata, e si era chiusa la porta tra i mondi, tutti coloro che erano collegati a Sharra erano finiti nel mondo della matrice. Tranne me. Io ero stato trattenuto da un potere ancora più forte. Ma c'era la possibilità di raggiungere Marja, con un collegamento a tre. Il corpo della bambina era davanti a noi, e quello era un legame assai forte. Io ero il padre, e anche quello era un legame. Ma la bambina, senza aiuto, non sarebbe riuscita a trovare la via del ritorno.

«Regis», gli chiesi, «puoi tenermi, se vado a prenderla?»

Per un momento, il giovane Hastur sgranò gli occhi, ma non ebbe esitazioni. Diana tese la mano e per l'ultima volta le nostre coscienze si fusero; un'espansione di me stesso si protese sempre più lontano, nei mondi della mente…

Attorno a me volavano ombre gelide e maligne. Poi qualcosa si scosse dal sonno: un'entità destata da me, che sognava, felice, e non aveva voglia di svegliarsi…

Bruscamente, con una violenza che fece gemere Diana, interruppi il collegamento a quattro e presi Marja tra le braccia. Tremavo per il sollievo, dopo le ore di disperazione.

«Marja!» esclamai, con la voce roca. «Cara! Svegliati!»

La bambina si mosse tra le mie braccia. Poi batté le ciglia e mi sorrise, con aria dolce e assonnata.

«Che cosa c'è?» mormorò.

Non so che cosa risposi, non so che cosa feci. Penso di essermi comportato come qualsiasi uomo impazzito per il sollievo. La strinsi finché non si lamentò che le facevo male. Poi mi sedetti e la tenni sulle mie ginocchia.

«Perché tutti mi guardano?» chiese lei, facendo il broncio. E come io provai a dire qualcosa, mi interruppe: «Ho fame!»

All'improvviso mi ricordai che anch'io avevo fame. Da due giorni non toccavo cibo. Per poco non scoppiai a ridere per il tono banale con cui si chiudeva quell'avventura.

«Anch'io ho fame, chiya», dissi. «Ma adesso andremo tutti a cercare qualcosa da mangiare.»

«E questa», commentò Diana, prendendo in braccio Marja che indossava ancora la camicia da notte, «è la prima cosa sensata che ti senta dire dal tuo ritorno a Darkover. Andiamo tutti a mangiare. Signora direttrice, potreste farci avere i vestiti della bambina?»

Due ore più tardi, lavati, rifocillati e rivestiti, eravamo un gruppo più che rispettabile, davanti alla scrivania del Legato. Lawton mi mostrò un dispaccio ufficiale.

«Questo ci è appena arrivato per relè», disse, e ce lo lesse: «“Sospendere ricerche su Darkover. Katherine Marshall ritrovata su Samarra, leggera amnesia, indenne. Haig Marshall.”

«Considerato il tempo impiegato dalla trasmissione», continuò, con aria cupa, «l'hanno trovata su Samarra mezz'ora dopo che le avevo parlato qui nel Quartier Generale, questa notte. A volte mi viene voglia di dare le dimissioni e di imbarcarmi come marinaio semplice su una nave spaziale.»

Guardò i capelli bianchi di Regis; Diana; la bambina che mi sedeva sulle gambe.

«Mi devi una spiegazione, Lew Alton», concluse.

Lo guardai con aria molto seria. Dan Lawton mi piaceva. Anche lui, come me, era figlio di due mondi, e come me aveva scelto la sua strada. Che non era la mia.

«Forse ho quel debito», risposi, «ma temo che non riuscirai mai a fartelo pagare.»

Alzò le spalle e gettò nel cestino il dispaccio.

«Vuol dire che continuerò ad aspettare», disse. «Comunque, dobbiamo parlarci. Per Darkover, gli anni di grazia sono finiti.»

Non potei che annuire. I Comyn avevano vinto, contro Sharra, ma in un certo senso avevano perso.

«Il quartier generale di Proxima mi ha dato un ordine», continuò Lawton. «Devo organizzare un governo provvisorio, sotto la presidenza di Hastur… il Reggente, non il ragazzo. Hastur è serio, onesto, e la gente lo ama.»

Annuii. Gli Hastur erano sempre stati la forza dei Comyn; Darkover non aveva niente da perdere, a liberarsi degli altri.

«Tu, Regis, probabilmente verrai dopo di lui. E quando arriverai all'età di tuo nonno, la gente sarà psicologicamente pronta a scegliere i propri governanti. Lew Alton…»

«Non fare affidamento su di me», dissi subito.

«Ti offro la scelta. O l'esilio, o rimanere qui, ma contribuendo a mantenere l'ordine.»

Regis si girò verso di me, mi guardò con grande sincerità.

«Lew», disse, «la gente ha bisogno di capi darkovani. Di gente che sia totalmente dalla sua parte. Lawton farà il possibile, ma è sempre stato un uomo della Terra.»

Guardai con tristezza il giovane Hastur. Forse era quello il suo posto. Governare, anche se solo per figura; lavorare per Darkover, solcando come meglio poteva le onde e le correnti mosse dalla Terra. E forse io avrei dovuto aiutarlo.