Così, se veniva toccata da un estraneo (ossia da chiunque non fosse un tecnico delle matrici, con l'addestramento delle Torri), ritrasmetteva la sensazione del contatto, enormemente amplificata, all'uomo con cui era in risonanza: esattamente come mi era successo qualche ora prima, alla dogana.
Ma era pericolosa anche per il suo possessore, perché bastava una minima disattenzione per dover assorbire tutto l'urto della sua potenza. Per tradizione, e perché non si scordi il pericolo da esse costituito, le matrici di quel genere venivano nascoste all'interno di qualche tipo di arma: in genere un corto stiletto, di quelli da portare al collo. La matrice Sharra risaliva all'Epoca del Caos ed era la più spaventosa arma che fosse stata creata su Darkover: perciò, era giusto che fosse nascosta in una spada. Anzi, sarebbe stato ancor più giusto nasconderla in una bomba a fusione nucleare. Possibilmente, in una già innescata e pronta a esplodere, capace di distruggere matrice e tutto… me compreso!
Mi accorsi che Marjus mi guardava terrorizzato. Tremava, ma non riusciva a staccare gli occhi dalla matrice.
«La matrice di Sharra!» mormorò a denti stretti. «Perché, Lew? Perché?»
Mi girai di scatto verso di lui.
«Come fai», gli chiesi seccamente, «a conoscerla?»
Infatti, Marjus non era mai stato informato. Nostro padre aveva preferito non gravargli la coscienza con un simile segreto. Mi alzai, mentre cominciavo ad avere i primi sospetti, ma, prima che potessi fare qualche domanda, venni interrotto dalla suoneria del telefono.
Marjus mi precedette e andò a rispondere. Ascoltò per un istante, poi mi porse il ricevitore, e si spostò per lasciarmi passare.
«Per te, Lew. Una comunicazione ufficiale», mi spiegò, a bassa voce.
Diedi la mia identità, e una voce secca, annoiata, disse: «Terzo Dipartimento».
«Per tutti gli inferni di Zandru!» esclamai. «Siete già qui? No… scusate… ditemi tutto.»
«Una notifica ufficiale», disse l'uomo. «Una comunicazione di intento di uccidere, ad armi pari, è stata presentata a questo ufficio nei confronti di Lewis Alton-Kennard-Montray. L'uccisore dichiarato è stato identificato come Robert Raymon Kadarin, senza fissa dimora. La notìfica vi è stata data come prescritto dalla legge; ora dovete accettarla o fornire una scusa legalmente valida per rifiutarla.»
Io inghiottii a vuoto.
«L'accetto», dissi alla fine, e riagganciai il ricevitore. Avevo la fronte madida di sudore e tornai a sedere.
Il ragazzo venne a sedersi accanto a me.
«Che cosa ti è successo, Lew?» mi chiese.
Mi faceva male la testa. Dovetti massaggiarmela con la mano sana.
«Mi hanno appena comunicato un “intento”», dissi.
«Diavolo!» esclamò Marjus. «Così presto? E da parte di chi?»
«Non lo conosci», risposi.
Sentii che la faccia mi si contraeva per un tic, dalla parte della cicatrice. Kadarin: il capo dei ribelli di Sharra. Un tempo mio amico, ora mio nemico implacabile. Non aveva davvero perso tempo, per invitarmi a risolvere definitivamente la nostra vecchia rivalità.
Mi chiesi se sapesse che avevo perso la mano, e solo allora mi venne in mente — come se fosse un episodio successo a un altro — che poteva essere una ragione legale per rifiutare il duello. Cercai di rassicurare il ragazzo.
«Non spaventarti, Marjus», gli dissi. «È un certo Kadarin, ma non ho paura di lui, ad armi pari. Non valeva molto, con la spada. Lui…»
«Kadarin!» balbettò. «Ma Bob mi aveva promesso…»
«Bob!», esclamai, stupito. Di scatto, lo afferrai per il braccio. «Come fai a conoscere Kadarin?»
«Lascia che ti spieghi, Lew», rispose lui. «Io non sono…»
«Dovrai fornirmi parecchie spiegazioni, fratellino», gli dissi con aria minacciosa.
Proprio in quel momento, qualcuno bussò rumorosamente alla porta.
«Non aprire a nessuno!» esclamò Marjus, impaurito.
Ma io andai alla porta e tolsi il catenaccio. Nella stanza entrò di corsa Diana Ridenow.
Dopo che l'avevo vista all'aeroporto s'era cambiata, e adesso portava calzoni da equitazione, di foggia maschile, un po' troppo grandi per lei, e sembrava un bambino bellicoso e polemico. Si fermò dopo essere entrata e fissò il ragazzo seduto.
«Che cosa…?» domandò.
«Conosci mio fratello», dissi io, con fastidio.
Ma Diana era ancora allibita.
«Tuo fratello?» disse infine, quando riuscì di nuovo a parlare. «Sei impazzito? Quello non è Marjus!»
Io feci un passo indietro, senza crederle, e Diana batté il piede in terra, con stizza.
«Gli occhi! Lew, imbecille, guardagli gli occhi!»
Il mio presunto fratello si lanciò verso di me e mi fece perdere l'equilibrio. Ci urtò con tutto il suo peso; Diana girò su se stessa, io finii con un ginocchio a terra e cercai di rialzarmi.
Gli occhi. Marjus, ricordai, aveva gli occhi uguali a quelli di nostra madre. Castano scuro. Nessun darkovano ha mai avuto gli occhi di quel colore. E quell'impostore che non era Marjus aveva gli occhi da terrestre, castano chiaro, con macchie che sembravano pagliuzze d'oro. Solo due volte avevo visto occhi come quelli. Gli occhi di Marjorie e quelli di…
«Rafe Scott!» esclamai.
Il fratello di Marjorie! Niente di strano, se mi aveva riconosciuto e se mi era parso una persona familiare. Anche Rafe, quando l'avevo visto l'ultima volta, era un bambino.
Cercò di spingermi via per fuggire, ma io lo afferrai con una stretta tale da spaccargli le ossa, e lui cercò di divincolarsi.
«Dov'è mio fratello?» gridai. Infilai il piede dietro il suo tallone e spinsi; tutt'e due finimmo a terra.
Non ha detto di essere Marjus, pensai, in quell'istante. Semplicemente, non lo ha negato quando si è accorto che l'avevo scambiato per lui…
Riuscii a mettergli il ginocchio sul petto e lo tenni fermo sotto il mio peso.
«Che cos'è questa storia, Rafe? Parla!» gli ordinai.
«Fammi alzare, maledizione! Ti posso spiegare ogni cosa!» rispose lui.
Non ne dubitavo: avrebbe certamente trovato qualche spiegazione convincente. Bastava pensare con quanta astuzia avesse scoperto che ero disarmato. La colpa, però, era anche mia: avrei dovuto fidarmi del mio istinto; non l'avevo sentito come un fratello. Non mi aveva chiesto notizie di mio padre. Era rimasto imbarazzato, quando gli avevo mostrato il regalo.
«Lew», cominciò Diana, «forse…»
Ma, prima che riuscissi a risponderle, Rafe riuscì a girarsi su se stesso, mi afferrò il ginocchio e mi fece rotolare a terra. Prima che riuscissi a rimettermi in piedi, aveva dato uno spintone a Diana, senza tante cerimonie, ed era fuggito in corridoio.
Mi alzai, con il fiato corto, e Diana si avvicinò a me.
«Sei ferito?» chiese. «Cerchiamo di raggiungerlo?»
«No, a tutt'e due le domande», risposi. Finché non avessi scoperto perché Rafe era ricorso a quella goffa impostura, sarebbe stato inutile cercarlo, perché mi avrebbe raccontato solo menzogne. Nel frattempo, dov'era il vero Marjus?
«La situazione», osservai, senza necessariamente rivolgermi a Diana, «diventa sempre più pazzesca. Ma tu, che cosa c'entri?»
Lei si sedette sul letto e mi fissò con ira.
«Vediamo se lo indovini», mi rispose.
Una volta tanto, rimpiansi di non poterle leggere nella mente. C'era una ben precisa ragione per cui non potevo farlo, ma non starò a parlarne proprio ora.