Basterà dire che Diana equivaleva a un mucchio di guai: guai in una confezione piccola, bionda, graziosa, ma un mucchio di guai.
Io ero su Darkover, adesso; e contavo di rimanerci almeno per qualche tempo. Le abitudini sociali di Vainwal — dove Diana, sotto la nominale protezione del fratello Lerrys, aveva trascorso i due anni precedenti — sono meno rigide del codice di comportamento darkovano. E Lerrys aveva avuto il buon senso di non interferire.
Ma, su Darkover, Diana era un Comyn, e vantava diritti di successione sulle grandi proprietà dei Ridenow. Mentre io ero solo un mezzo sangue, incrociato con gli odiati terrestri. Una tresca amorosa con Diana avrebbe scatenato contro di me tutti i Ridenow, che non sono pochi.
Per tutta la vita avrei continuato a essere grato a Diana. Quando avevo perso Marjorie, in quell'ultima, orribile notte in cui la potenza di Sharra si era scatenata sulle colline dall'altra parte del fiume, era come se mi fosse stato strappato qualcosa dal cuore. Non un taglio netto, come per la mano, ma una ferita interna che marciva e si guastava.
Non ero riuscito a pensare a un'altra donna, a un altro amore: solo a un orrore nero e disperato, finché non avevo conosciuto Diana. Lei si era gettata nella mia vita: una ragazza graziosa, appassionata, sicura di sé, che si era fatta carico di quell'orrore, senza mai tremare, e alla fine era riuscita a guarirmi.
Era amore? Sì e no. Ma era comprensione, fiducia. Le avrei affidato senza paura la mia reputazione, la mia fortuna, la mia salute… la vita.
Ma dei suoi fratelli mi fidavo quanto mi sarei fidato di vedere la rotta attraverso la chiglia di metallo della Croce del Sud. E non potevo permettermi di litigare con loro, almeno per il momento.
Cercai di spiegarlo a Diana senza offenderla, ma non fu facile. Lei continuò a guardare in basso, imbronciata, e a dondolare le gambe, mentre io camminavo avanti e indietro come un animale in trappola.
Già il semplice fatto che si trovasse nelle mie stanze poteva essere pericoloso, se i suoi famigliari ne fossero venuti a conoscenza, benché si trattasse di un incontro innocente. E io sapevo che se fosse rimasta ancora in quella stanza per qualche tempo, innocente non sarebbe più stato. E anche se Diana mormorava, di tanto in tanto: «Certo, certo», la cosa serviva solo a farmi infuriare, perché in realtà non ne era affatto certa; anzi, se c'era una cosa di cui era certa, era quella di voler fare il contrario di quel che le consigliavo.
Quando alzò gli occhi e prese a fissare qui e là, gli occhi le caddero sulla spada cerimoniale, ancora stesa sul letto. Aggrottando la fronte, fece per prenderla.
Non fu un vero e proprio dolore, ma mi sentii afferrare da una forte tensione, come se una mano si fosse stretta sui miei nervi. Lanciai un urlo, senza lasciar uscire dalle mie labbra alcun suono, e Diana lasciò cadere la spada, come se scottasse.
Mi fissò a bocca aperta.
«Che cosa c'è?» chiese.
«Non posso spiegartelo…» dissi, e per qualche istante mi limitai a fissare la spada.
«Prima di tutto», ripresi poi, non appena fui di nuovo in grado di respirare, «è meglio che la sistemi, in modo che si possa prenderla in mano. Per il bene mio e di chi la tocca.»
Frugai nel mio bagaglio, alla ricerca della mia attrezzatura da meccanico delle matrici. Mi restavano solo pochi pezzi della particolare seta isolante per matrici, contenente nella trama e nell'ordito una rete di fili metallici che faceva da gabbia di Faraday; ma adesso che ero su Darkover avrei potuto procurarmene dell'altra. L'avvolsi sulla gemma e sull'elsa finché non sentii più il calore e il formicolio della matrice; poi, aggrottando la fronte, la tenni a una certa distanza e la fissai con diffidenza. Con quella matrice, non ero neppure certo che le normali precauzioni avessero effetto.
Porsi la spada a Diana. Lei si morse il labbro, ma la impugnò. Sentii un leggero dolore, del tutto sopportabile; una tensione un po' fastidiosa, ma non di più. Una cosa ben diversa dalla sensazione delle ultime due volte.
«Perché hai lasciato priva di isolamento una matrice di così grande potenza?» chiese Diana. «E come diavolo le hai permesso di entrare in così forte risonanza con te?»
Erano due ottime domande, specialmente la seconda. Ma finsi di non averla udita.
«Non osavo farle passare la dogana avvolta nella seta isolante», dissi, con aria cupa. «Ormai i terrestri sanno che cosa cercare, e sono sempre alla caccia di grosse matrici. Ma finché sembra solo una gemma posta sull'elsa di una spada, nessuno bada a essa.»
Lei scosse la testa.
«Lew», disse, «non capisco.»
«Non cercar di capire, cara», le dissi. «Meno ne saprai, meglio sarà per te. Qui non siamo su Vainwal, e io non sono più l'uomo che hai conosciuto lassù.»
Le sue labbra tremavano, ed entro un minuto io avrei finito per prenderla tra le braccia e per baciarla; ma in quel momento sentii bussare alla porta.
E pensare che avevo scelto quell'albergo per non essere disturbato!
Mi staccai da Diana.
«Sarà probabilmente uno dei tuoi fratelli», dissi con amarezza, «e adesso mi troverò con un altro intento di uccidere registrato contro me.»
Feci un passo verso la porta, ma Diana mi trattenne per il braccio.
«Aspetta», mi disse, in tono pressante. «Prendi almeno questa.»
Guardai l'oggetto che mi porgeva, e per qualche istante non capii che cosa fosse. Poi la riconobbi: una piccola pistola “a propulsione”: una delle armi a polvere esplosiva chimica, di fabbricazione terrestre, che, nonostante la loro dimensione ridotta e la semplicità di funzionamento, riescono a ferire gravemente una persona, e a distanze più che notevoli: dieci braccia, venti.
Tirai indietro la mano, con un moto istintivo di ripulsa, ma Diana me la cacciò in tasca.
«Non c'è bisogno di usarla», disse. «Mi basta che tu la porti. Ti prego, Lew…»
Sentii di nuovo bussare, ma Diana mi trattenne, dicendo: «Ti prego… la pistola…» e alla fine, con fastidio, annuii. Andai alla porta e la schiusi di pochi centimetri, mettendomi in modo da non far vedere la ragazza.
Alla porta c'era un ragazzo muscoloso e scuro di capelli, con gli occhi scuri e l'aria divertita.
«Allora, Lew?» mi chiese.
Dopo un istante, la sua presenza divenne pienamente tangibile per me. Non saprei spiegare esattamente come fosse successo, ma seppi.
Tutt'a un tratto, mi parve incredibile che Rafe fosse riuscito a ingannarmi anche solo per un minuto. Era la dimostrazione, se ancora ne avessi avuto bisogno, che dopo l'atterraggio la mia mente marciava a velocità ridotta.
Dissi, con la voce roca: «Marjus!» e lo feci entrare.
Non parlò, ma il modo in cui mi strinse la mano fu caldo e intenso.
«Lew… e nostro padre?» chiese.
«Su Vainwal», dissi, «la legge proibisce di trasportare le salme nello spazio.»
Inghiottì a vuoto e chinò la testa.
«Sotto un sole che non ho mai visto…» mormorò.
Io gli misi il braccio sulla spalla, e dopo un minuto lui mi guardò.
«Almeno», disse, «tu sei qui. Sei ritornato. Mi avevano detto che non volevi farlo.»
Commosso e con un senso di colpa, mi staccai da lui. C'era voluto un ordine per farmi ritornare, e adesso non ero affatto orgoglioso della cosa. Mi guardai attorno, ma Diana non c'era più. Evidentemente, era uscita dall'altra porta. Provai un leggero sollievo: con la sua fuga, mi risparmiava le spiegazioni.
Ma, in un certo senso, la cosa mi dava fastidio. Troppe persone, in quelle ultime ore, avevano fatto una breve comparsa e poi erano sparite. Le persone sbagliate, e per i motivi sbagliati. Dyan Ardais che mi aveva letto nella mente mentre eravamo sull'aereo. La ragazza dello spazioporto, che assomigliava a Linnell ma non lo era. Rafie, che si era fatto passare per mio fratello Marjus e che invece non lo era affatto. Diana, comparsa misteriosamente, senza nessun motivo comprensibile e poi svanita. E adesso arrivava lo stesso Marjus. Semplici coincidenze? Forse, ma io avevo la testa confusa.