«Sei pronto a venire via?» mi chiese Marjus. «Ho predisposto tutto, a meno che tu non abbia qualche buona ragione per rimanere qui.»
«Dovrei ritirare il mio certificato presso la Legazione», spiegai. «Poi potremo andare.»
Forse era meglio che me andassi via in fretta, mi dissi, altrimenti metà pianeta sarebbe venuto a bussare alla mia porta, a propormi altri misteri.
«Lew», mi chiese Marjus, bruscamente, «hai una pistola?»
La stessa domanda che mi aveva fatto Rafe… e, chissà perché, mi diede fastidio. Cercavo di riflettere su tutto quello che mi era accaduto, eliminando il falso Marjus (Rafe) dai miei pensieri e rimettendovi il vero Marjus.
«Sì», dissi, senza dare spiegazioni. «Vieni in Legazione con me?»
«Verrei fino all'altro capo della città con te.» Si guardò attorno, osservando la stanza, e rabbrividì. «Non riuscirei a resistere altri dieci minuti, in questa gabbia per bestie feroci. Non intendevi dormire qui, spero!»
La Città Commerciale era ancor più cresciuta, durante la mia assenza; era più vasta di quanto non ricordassi, più sporca e più affollata. Mi sembrava giusto pensare a essa come alla “Città Commerciale” anziché con il suo nome darkovano, Thendara. Per qualche tempo, Marjus si limitò a camminare al mio fianco, senza parlare. Poi si girò verso di me.
«Lew», mi chiese, «com'è, la Terra?»
Mi aspettavo che mi rivolgesse quella domanda. La Terra, pianeta dei nostri antenati, a cui lui assomigliava tanto. Io avevo sempre odiato la mia parte di sangue terrestre. Anche per lui era così?
«Occorre tutta una vita per conoscere la Terra», risposi, «e io sono rimasto laggiù per tre soli anni. Ho imparato un mucchio di scienza e un po' di matematica. Le loro scuole tecniche sono molto buone. Ci sono troppe macchine, troppo rumore. Io abitavo sui monti; vivere a livello del mare mi faceva star male.»
«Allora», commentò Marjus, «la Terra non ti è piaciuta?»
«Oh, no, stavo benissimo. Mi avevano perfino dato una mano meccanica!» Feci una smorfia. «Ecco la Legazione.»
Marjus disse: «Faresti meglio a darmi la pistola», e mi fissò con costernazione, quando vide che lo guardavo con ira.
«Che cos'hai, Lew?» mi chiese.
«Sta succedendo qualcosa di strano», dissi, «e comincio a sospettare della gente che mi vuole disarmare. Perfino di te. Conosci un uomo chiamato Robert Kadarin?»
Marjus mi guardò con espressione imperscrutabile. Quando aveva quell'espressione, la sua faccia abbronzata era un mistero totale, illeggibile come una statua.
«Mi pare di avere già sentito quel nome», disse. «Perché me lo chiedi?»
«Ha inoltrato un intento di uccidere contro di me», dissi, ed estrassi di tasca la pistola, per pochi istanti. «Non intendo usare quest'arma contro di lui, ma preferisco averla con me», spiegai.
«Faresti meglio a lasciarmela», ripeté Marjus. Poi alzò le spalle. «Ma capisco. Scusa.»
Entrai nel grattacielo e presi l'ascensore. Dall'interno della sua cabina di vetro, vidi passare davanti a me i quartieri della forza spaziale, l'ufficio statistiche, i vari piani stipati di macchine, di archivi, di impiegati: tutta l'amministrazione di uno dei principali porti di transito della Galassia.
Giunto all'ultimo piano, mi avviai lungo il corridoio, fino alla porta su cui si leggeva: «DAN LAWTON — Legato per gli Affari Darkovani».
Come Legato, Lawton prendeva molto sul serio il suo lavoro di collegamento tra i due pianeti, e amava tenere sotto controllo i movimenti di chi andava e veniva sul pianeta. Io avevo avuto occasione di conoscerlo prima di lasciare Darkover e sapevo che la sua storia assomigliava alla mia: padre terrestre, madre appartenente a una famiglia Comyn. Eravamo perfino lontani parenti, ma non saprei dire esattamente di che grado.
Lawton era un uomo alto e robusto, dai capelli rossi, che sarebbe potuto passare benissimo per darkovano e che avrebbe potuto rivendicare un seggio nel Consiglio dei Comyn, se l'avesse chiesto.
Tuttavia, lui non l'aveva chiesto. Aveva scelto l'Impero, e oggi era uno dei più alti funzionari di collegamento tra terrestri e darkovani. Secondo me, nessun uomo che viva secondo i costumi terrestri può essere completamente onesto con se stesso; ma lui lo era più di tanti altri.
Ci stringemmo la mano alla maniera dei terrestri — abitudine che io, come tutti i telepatici, odio — e mi accomodai davanti a lui. Mi sorrise con aria amichevole, senza false esagerazioni, e non cercò di sfuggire al mio sguardo. Vi assicuro che non sono molti coloro che riescono a guardare negli occhi un lettore dei pensieri.
Mi riconsegnò il tesserino di plastica.
«Eccolo», disse. «Non l'ho fatto trattenere perché fosse necessario il controllo, ma perché mi serviva una scusa per parlare con te, Alton.»
Io m'infilai in tasca il documento, ma non dissi niente.
«Sei stato sulla Terra, se mi hanno bene informato», continuò. «Ti è piaciuta?»
«Il pianeta, sì», risposi, «ma la gente — senza offesa — no.»
Lui rise.
«Non hai bisogno di scusarti», disse. «Me ne sono andato via anch'io. Laggiù rimangono solo i peggiori. Chi ha un po' di intelligenza e di spirito di iniziativa viene mandato a farsi l'esperienza sugli altri pianeti. Alton, perché non hai mai chiesto la cittadinanza imperiale? Tua madre era terrestre: avresti tutto da guadagnare, a chiederla, e niente da perdere.»
«E perché tu non hai chiesto un seggio tra gli Hastur?» ribattei io.
Lui annuì. «Capisco.»
«Lawtori», gli dissi allora, «io non combatto contro la Terra. Non sono granché soddisfatto della presenza dell'Impero su Darkover, ma noi, quando combattiamo, non ragioniamo in termini di città, di nazioni e di pianeti. Se un terrestre fosse mio nemico, andrei a depositare un intento e poi cercherei di ucciderlo. Se dieci di loro mi bruciassero la casa o mi rubassero i cavalli, chiamerei i miei famigliari, ci metteremmo insieme e li uccideremmo. Ma non posso odiare qualche migliaio di persone — persone che non mi hanno mai fatto del male, e neppure del bene — semplicemente per il fatto che sono qui. Noi non ragioniamo così. Noi odiamo le singole persone, non le masse.»
«Posso provare simpatia per questa posizione, ma vi mette in svantaggio nei confronti dell'Impero», disse Lawton, con un sospiro. «Comunque, non ti tratterrò più a lungo, a meno che non ci sia qualcosa che posso fare per te, naturalmente.»
«Forse, sì», risposi. «Conosci un uomo che si fa chiamare “Kadarin”?»
La sua reazione fu immediata.
«Non dirmi che è qui a Thendara!» esclamò.
«Lo conosci?» chiesi di nuovo.
«Vorrei non avere mai sentito il suo nome! Voglio dire che non lo conosco personalmente, che non l'ho mai visto. Ma salta fuori dappertutto. Afferma di avere cittadinanza darkovana quando è in territorio terrestre, e in qualche modo riesce sempre a dimostrarlo; e mi risulta che pretende di essere un terrestre, e che riesce a dimostrarlo, quando ne è fuori.»
«E…?» lo incoraggiai.
«E non possiamo negargli i suoi Tredici Giorni», disse, scuotendo la testa.
Risi. Avevo già visto molti terrestri scuotere la testa allo stesso modo, quando si scoprivano beffati dalla nostra legge dei Tredici Giorni: una legge che a loro sembra solo un'illogica trappola giuridica. Un esiliato, un fuorilegge, perfino un assassino, aveva un diritto inalienabile, che risaliva ai tempi più lontani, di trascorrere una giornata a Thendara, tredici volte l'anno, per esercitare i suoi diritti legali. In quel periodo, a patto che non commetta alcun crimine, gode di una completa immunità.