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Il Valkisiano ridacchiò sommessamente, mentre infilava il suo corpo massiccio in una piccola finestra aperta sul lato opposto della stanza.

«Conosco tutte le tane di questo quartiere del porto. Neppure i topi riescono a conservare i loro segreti, con me! È per questo che, non appena ti ho visto circondato dalla folla, in quella brutta situazione, e con le spalle appoggiate alla porta del vecchio Taras Thur, ho seplicemente fatto il giro della bottega, proprio sotto il naso dei soldati di Sark.»

«Ma perché hai fatto questo?» domandò Carse.

«Te l’ho già detto… ho una simpatia particolare per i Khond. Sono abbastanza uomini da sfidare Sark e il suo maledetto^ Serpente, e quanti sono gli uomini che ancora possono vantarsi di fare questo? Così, quando vedo un Khond in pericolo, e posso aiutarlo, non mi tiro indietro.»

Si trattava di una spiegazione priva di senso, per Carse. Ma come poteva sperare di capire, di trovare un senso nelle parole di quello straniero? Come poteva sperare di comprendere qualcosa, qualsiasi cosa, degli odii e delle guerre, delle dispute e delle passioni di quel Marte del remotissimo passato, di quel mondo così infinitamente lontano dal suo?

Doveva arrendersi alla realtà. Lui era prigioniero di quello strano Marte di un’epoca antichissima, era prigioniero di una prigione inesorabile, la più remota e inaccessibile e sicura… la prigione del passato, di un abisso che solo lui, tra gli uomini della sua epoca, aveva potuto valicare. E doveva cercare di capire le cose, mano a mano che esse si presentavano davanti a lui, doveva procedere a tentoni, timidamente, come un bambino ignorante. Una cosa era stata certa, inequivocabile: quella plebaglia infuriata, là fuori, aveva cercato di ucciderlo. Sulle intenzioni di quella gente, sarebbe stato impossibile ingannarsi.

La folla di Jekkara lo aveva scambiato per un Khond. E non era stata soltanto la plebaglia Jekkariana a commettere quell’errore, ma anche quei bizzarri schiavi… quegli esseri semiumani dalle ali mozzate, quelle creature pelose e snelle che lo avevano salutato come un liberatore dalle galere ormeggiate nel porto.

Carse rabbrividì. Fino a quel momento, era stato troppo stordito per riflettere sulla bizzarria di quegli schiavi, di quegli incredibili schiavi che erano sembrati umani, eppure non erano stati del tutto umani.

E chi erano i Khond?

«Da questa parte,» disse d’un tratto Boghaz Hoi, interrompendo il corso dei suoi pensieri.

Si erano addentrati in un piccolo labirinto buio di vicoletti maleodoranti, e il grasso Valkisiano stava faticando per infilare la sua mole in una porticina stretta, che portava all’interno di una piccola, buia capanna.

Carse lo seguì all’interno di quel riparo. Sentì il sibilo del corpo, nelle tenebre fittissime, e cercò di evitarlo, ma non ne ebbe il tempo. I suoi riflessi erano ancora appannati, e l’attacco era giunto troppo improvviso.

Il colpo fece esplodere una bomba di stelle nella sua testa, stelle che sfrecciavano come le scintille luminose nella grande, fosca bolla di tenebre che ricordava così bene, ed egli sentì, un attimo dopo, il contatto impietoso, violento, del pavimento ruvido e duro della capanna.

Quando riprese i sensi, una luce ondeggiante gli ferì subito gli occhi. C’era una piccola lampada di bronzo che ardeva su uno sgabello, vicino a lui. Scoprì di essere disteso sul pavimento sporco della capanna. Quando cercò di muoversi, scoprì di avere le caviglie e i polsi legati a dei pioli infissi nel terreno solido, pressato, che formava il pavimento del miserabile alloggio.

Il movimento gli provocò una fitta dolorosa alla testa, un dolore sordo, violento, che gli ottenebrò lo sguardo e per poco non gli fece perdere di nuovo i sensi. Esausto, sconfitto, rimase disteso sul pavimento, senza tentare di muoversi. Si udì un fruscio sommesso, allora, e subito dopo Boghaz

Hoi si accoccolò sul pavimento, accanto a lui. Il volto da luna piena del Valkisiano mostrava un’espressione di sincera compassione, quando egli accostò una ciotola d’acqua alle labbra di Carse.

«Temo di averti colpito troppo duramente. Ma lo sai bene anche tu… quando si è al buio, in compagnia di un uomo armato, bisogna essere prudenti, molto prudenti. E io, Boghaz, sono un uomo prudente.» Tacque per va momento, continuando a fissare Carse con benevolenza, e poi disse, «Te la senti di parlare, adesso?»

Carse sollevò lo sguardo, fissando il grassone, e riuscì a dominare la collera che lo scuoteva… ma la vita su Marte gli aveva insegnato in tante occasioni a dominare i propri sentimenti.

«Di che cosa dovrei parlare?» domandò.

Boghaz sorrise, amabilmente, e disse:

«Io sono un uomo sincero e degno di ogni fiducia, e amo dire sempre la verità. Quando ti ho salvato da quella plebaglia, la mia unica intenzione era quella di derubarti.»

Carse vide che la sua cintura e il suo collare, adorni di pietre preziose, erano stati trasferiti sul corpo di Boghaz, che li portava entrambi intorno al collo. In quel momento, Il Valkisiano sollevò la mano paffuta, e accarezzò i preziosi monili con evidente affetto.

«Poi,» continuò, «Ho dato un’occhiata più attenta a… questa.» Con un cenno del capo, indicò la spada gemmata che era appoggiata allo sgabello, e sfavillava nella luce ondeggiante della lampada. «Vedi, molti uomini potrebbero esaminarla attentamente, e ti saprebbero dire soltanto che si tratta di una bellissima spada, degna di un principe o di un re. Ma io, Boghaz, sono un uomo colto. Ho subito riconosciuto il simbolo inciso su quella spada.»

Si protese verso il suo prigioniero, e socchiuse gli occhi, e domandò, abbassando la voce:

«Dove l’hai presa?»

Un istinto ammonitore indusse subito Carse a rispondere con tuia menzogna, senza alcuna esitazione:

«L’ho comprata da un mercante.»

Boghaz scosse il capo.

«Non è vero. Ci sono dei piccoli segni di corrosione, sulla lama, e le incisioni sono incrostate di polvere. L’elsa non è stata lucidata da molto, moltissimo tempo. Nessun mercante venderebbe una spada così bella in queste condizioni… prima la renderebbe lucida come uno specchio, la pulirebbe con tutto l’amore possibile.

«No, amico mio, quella spada ha riposato per molto, moltissimo tempo nelle tenebre, nella tomba di colui che ne era il legittimo padrone… nella tomba di Rhiannon.»

Carse rimase disteso al suolo, perfettamente immobile, fissando Boghaz. E quello che vide non gli piacque affatto.

Il Valkisiano aveva una faccia bonaria e gioconda. Sarebbe stato un eccellente compagno, davanti a una bottiglia di vino. Era certamente capace di amare un uomo come un fratello, e gli sarebbe infinitamente dispiaciuta la necessità di dovergli tagliare la gola. Ma l’avrebbe fatto, senza pensarci neppure per un momento. Carse aveva già visto altre volte quell’espressione, e sapeva bene cosa doveva attendersi.

Carse cercò di assumere un atteggiamento ostinato, cercò di privare il suo viso di ogni espressione, oltre a quella di un’indifferenza velata di risentimento.

«Per quello che ne so, potrebbe trattarsi benissimo della spada di Rhiannon, o di qualunque altro degli dei. Comunque, io l’ho comprata da un mercante.»

Boghaz sporse la bocca piccola e rosea, poi, con un’espressione sinceramente addolorata, fece un segno di diniego, allungò la mano grassoccia, e diede un buffetto sulla guancia di Carse. Alla fine di questa mimica, sporse di nuovo le labbra, scosse il capo, e nei suoi occhi parvero apparire delle lacrime di dolore.

«Ti prego, amico, non dire delle bugie a Boghaz. Quando qualcuno non è sincero con me, soffro moltissimo, e finisco col perdere la testa.»

«Io non sto dicendo delle bugie,» protestò Carse. «Stammi a sentire… ora tu hai la spada. Hai gli ornamenti con tutti i gioielli. Mi hai preso tutto quello che potevi prendermi. Accontentati.»