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Carse sognava. Sognava di rivivere quel pauroso tuffo d’incubo, attraverso gli infiniti ululanti della nera bolla scintillante, celata nella stanza più segreta della Tomba di Rhiannon… Come allora, lui stava precipitando da altezze incalcolabili, verso abissi incommensurabili, abissi neri e misteriosi e infiniti come il tempo, come il mondo fatto di nulla che si apriva oltre i confini dell’universo. Cadeva, cadeva…

E di nuovo, ebbe la sensazione di una presenza, una presenza forte e viva, che era vicinissima a lui; in quel tuffo spaventoso, gli parve che qualcosa stesse tentando di ghermire il suo cervello, con un’ansia tenebrosa e orrenda.

«No!» bisbigliò raucamente Carse, nel sogno. «No!»

Bisbigliò ancora il suo rifiuto… il rifiuto di qualcosa che la nera presenza gli stava chiedendo, qualcosa di orribile e misterioso e velato.

Ma la presenza faceva udire di nuovo la sua domanda, ed era una supplica, una invocazione, una preghiera, sempre più urgente, sempre più insistente, e qualunque fosse la natura della sua domanda, della sua supplica, ora pareva infinitamente più forte di quella intuita nella Tomba di Rhiannon. Sgomento, Carse lanciò un grido di terrore.

«No, Rhiannon!»

E improvvisamente scoprì di essere sveglio, e di fissare confusamente, con occhi fissi e offuscati, il banco e il remo illuminati dal soffuso, contrastante chiarore delle lune.

Callus e il sorvegliante stavano avanzando lungo la passerella, distribuendo grandi colpi di frusta tra gli schiavi, per svegliarli. Boghaz stava fissando Carse, con una strana espressione sul volto di luna piena.

«Tu hai invocato il nome del Maledetto!» disse.

Anche l’altro schiavo incatenato al loro banco lo fissava, e così pure gli occhi luminosi delle due creature pelose incatenate alla passerella. Quegli occhi erano fissi su di lui, e c’era, in essi, qualcosa di bizzarro, una domanda inespressa, o forse un’oscura apprensione.

«È stato soltanto un brutto sogno,» borbottò Carse. «Nulla di più.»

Fu interrotto da un sibilo, seguito da uno schiocco e da un dolore bruciante, lancinante, alla schiena.

«Bada al tuo remo, carogna!» ruggì la voce di Callus, dall’alto della passerella.

Carse emise un grido strozzato, rabbioso come quello di una tigre, ma Boghaz fu lesto a chiudergli la bocca con una delle sue mani enormi e gonfie.

«Calma!» lo avvertì. «Calma!»

Carse riuscì a dominarsi, ma non fece in tempo a evitare una seconda, bruciante sferzata. Callus era sulla passerella, in piedi, e lo dominava dall’alto della sua statura, e lo guardava sogghignando.

«Bisognerà avere cura di te,» disse. «Molta cura… e bisognerà anche ricordarti spesso che c’è qualcuno che ti sorveglia!»

Poi sollevò il capo, e gridò a gran voce, rivolgendosi a tutti i rematori.

«Va bene, feccia del mare, carogne! Ora siete svegli! Salperete con la marea, per Sark, e scorticherò vivo il primo che perderà la battuta!»

In alto, sul ponte, i marinai sciamavano tra le sartie. Le grandi vele cadevano dagli alberi, oscure nel chiarore delle lune.

Su tutta la nave cadde allora un silenzio cupo, gravido d’attesa, nel quale tutti parvero trattenere il fiato e prepararsi. Su una piattaforma, in fondo alla corsia, uno schiavo si teneva pronto a battere su un grande tamburo di pelle.

Poi, nel silenzio, si udì una voce stentorea che impartiva un ordine. Il pugno del tamburino si chiuse, e calò sullo strumento.

Lungo tutta la fila dei rematori, le grandi pale si alzarono, s’immersero nelle acque fosforescenti, risalirono, e s’immersero di nuovo, prendendo un ritmo costante, monotono, sempre uguale, scandito dal battito cupo e monotono del tamburo, e dagli schiocchi crudeli, continui dello scudiscio. In qualche modo, Carse e Boghaz trovarono ben presto il ritmo, e riuscirono a fare ciò che dovevano fare.

La fossa dei rematori era troppo profonda, perché coloro che si trovavano all’interno potessero vedere cosa accadeva fuori, se non per le fuggevoli immagini che si riuscivano a scorgere dai portelli dei remi. Ma Carse udì le grida festanti della folla radunata sui moli, che salutava, mentre la galera da guerra di Ywain di Sark salpava l’ancora, dirigendosi verso il mare aperto.

La brezza notturna era leggera, e le vele non riuscivano a gonfiarsi, completamente. Il tamburo scandiva il ritmo, sempre più veloce, sempre più veloce, facendo sollevare e abbassare i lunghi remi, e facendo incurvare le schiene sudate e coperte di cicatrici degli schiavi, piegati nella loro terribile, monotona fatica.

Carse sentì sollevarsi lo scafo, al contatto delle prime onde del mare aperto, fuori della protezione della rada. Attraverso il suo portello del remo, egli riuscì a scorgere una fugace immagine di un oceano gonfio e inquieto, una grande distesa di fuoco latteo.

Curvo sul remo della galera reale, egli era diretto a Sark, attraverso il Mare Bianco di Marte.

Capitolo VI

SUL MARE DI MARTE

Finalmente il vento cominciò a spirare con forza maggiore, e le vele della galera si gonfiarono, e così gli schiavi poterono riposare. Anche questa volta, Carse sprofondò in un sonno profondo e inquieto. Quando si svegliò nuovamente, era l’alba.

Attraverso il portello del remo, poté vedere il mare cambiare colore, col sorgere del sole. Non aveva mai assistito a uno spettacolo di tale bellezza, e quella bellezza era per i suoi occhi come una beffa crudele. L’acqua si tinse dei pallidi colori delle prime luci, riscaldandoli con il gelido fuoco della sua fosforescenza… fuochi d’ametista e di perla, di topazio e di rosa. Poi, mano a mano che il sole saliva lento sopra il lontano orizzonte, il mare diventò un solo, immenso foglio di oro fuso.

Carse osservò muto il gioco cangiante dei colori, fino a quando anche l’ultima sfumatura non fu scomparsa, scolorita nell’acqua che era ritornata bianca come il latte. E quando il fantasmagorico spettacolo fu finito, Carse rimase con il cuore stretto da una morsa di malinconia. Perché lo spettacolo era stato così irreale che il terrestre avrebbe potuto fingere di sognare ancora, forse nella casa di Madam Kan, sul polveroso Canale Inferiore, immerso nei sogni che vengono quando si è troppo abusato dei fumi del thil.

Al suo fianco, il grasso Boghaz stava russando placidamente. Il tamburino stava dormendo, davanti al suo enorme tamburo. Gli schiavi erano chini sui remi, e riposavano dopo la grande fatica.

E allora, Carse guardò quegli schiavi, quei nuovi compagni del suo destino. Erano un’accolita di gente dura e torva, probabilmente in maggioranza dei criminali condannati a espiare la loro pena sulla galera reale. Gli parve di riconoscere alcuni dei tipi etnici rappresentati… c’erano dei Jekkariani, dei Valkisiani e dei Keshi.

Erano criminali, in maggioranza… ma ce n’erano alcuni, tra loro, come l’uomo che era incatenato al suo stesso remo, che avevano un aspetto del tutto diverso; e che dovevano appartenere non solo a un’altra razza, ma non erano neppure criminali. Si trattava, molto probabilmente, di Khond, e osservandoli Carse capì per quale motivo, a Jekkara, era stato scambiato per uno di loro. Erano degli uomini alti e robusti e magri, dagli occhi chiari, e dai capelli biondi o rossicci; e avevano un’aria barbara che piacque subito a Carse.

Poi lo sguardo si posò sulla corsia, e finalmente egli poté vedere chiaramente le due creature che si trovavano là, incatenate alla passerella. E non c’era dubbio… appartenevano alla stessa razza di quelle che l’avevano salutato con grande clamore dalle navi, quando lui aveva affrontato da solo, nella piazza, la plebaglia assetata di sangue di Jekkara.

E non si trattava di creature umane. Per lo meno, non completamente umane. Erano affini, piuttosto, alle foche e ai delfini, e ricordavano l’impeccabile, armoniosa, e libera bellezza di un’onda incappucciata di spuma, nell’attimo in cui sta per frangersi sulla scogliera. I loro corpi erano interamente ricoperti da una peluria fitta e scura, che diventa più rada e sottile sul volto, mostrando chiaramente i lineamenti, belli e finemente cesellati. Le creature riposavano, ma non stavano dormendo, e i loro occhi erano aperti, grandi e scuri e pieni d’intelligenza.