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L’intuito gli disse che doveva trattarsi delle creature che i Jekkariani avevano chiamato Nuotatori. Si domandò, brevemente, quale potesse essere la loro funzione, a bordo della nave. Uno era un uomo, l’altra una donna: malgrado il loro aspetto non umano, infatti, egli non riusciva a pensare a essi come ad animali, e a definirli maschio e femmina.

Si accorse, dopo qualche istante, che i loro grandi occhi erano fissi su di lui, e lo studiavano, con intensa curiosità. Sentì scorrere un brivido freddo lungo la schiena. C’era qualcosa di misterioso, nei loro occhi, come se essi avessero potuto vedere molto al di là dei consueti orizzonti.

La donna gli parlò, con voce dolce:

«Benvenuto nella confraternita della frusta.»

Il tono della voce era amichevole, eppure Carse vi avvertì uno strano riserbo, una nota indugiante di perplessità.

Carse le sorrise.

«Grazie,» rispose.

Si rese conto, e questa volta coscientemente, di una cosa che già la sua mente aveva registrato la sera prima, e che allora non aveva avuto importanza, per la stanchezza che aveva gravato su di lui. L’Alto Marziano che lui parlava non era quello purissimo, antico e armonioso, parlato da quella gente; l’antichissima lingua di Marte, sia pure immutata nel corso dei millenni, aveva subito delle lievi modifiche, semplici sfumature che però risaltavano nella sua voce. Capì di parlare nell’antica lingua con un forte accento esotico, accentuato ancora, probabilmente, dalla sua origine terrestre, anche se aveva trascorso su Marte quasi tutta la sua vita. E questo faceva nascere un altro problema. Avrebbe certamente faticato a giustificare la sua presenza, a spiegare la sua origine e la sua razza; perché sapeva benissimo che i Khond non avrebbero commesso, ovviamente, lo stesso errore commesso dai Jekkariani. Loro avrebbero capito immediatamente che lui non era uno di loro.

E le parole che la Nuotatrice pronunciò subito dopo furono una diretta conferma di questo suo timore.

«Tu non sei di Khondor,» disse lei, «Anche se il tuo corpo somiglia molto a quello di un Khond. Qual è il tuo paese?»

Una rude voce maschile fece subito eco a quella di lei.

«Sì, qual è, straniero?»

Carse si voltò, lentamente, e vide che il grande schiavo Khond, il terzo uomo incatenato al suo remo, lo stava fissando duramente, con una mescolanza di ostilità e di sospetto.

Senza lasciargli il tempo di rispondere, l’uomo proseguì:

«Si era diffusa la voce che tu fossi una spia Khond catturata nella città, ma questa è una menzogna. È assai più probabile che tu sia un Jekkariano, travestito da Khond e messo qui, in mezzo a noi, dai Sark.»

Un sordo brontolio ostile corse lungo i banchi dei rematori.

Carse aveva capito già da prima che avrebbe dovuto dare una spiegazione intorno alla sua origine e alla sua razza, e che avrebbe dovuto fornire una spiegazione plausibile; e la sua mente aveva lavorato alacremente, e con estrema rapidità. Perciò non si trovò impreparato, ora, di fronte a quella domanda, e rispose subito:

«Io non sono un Jekkariano, ma vengo da una tribù che vive al di là del Shun. Da un luogo così lontano, che mi sembra ora di vivere in un altro mondo, un mondo completamente diverso dal mio.»

Il grande Khond lo fissò, e annuì, sia pure conservando un’ombra di sospetto.

«Può darsi che tu dica la verità,» ammise, con un borbottio. «Il tuo aspetto è strano, e parli con un accento ancor più strano. Per quale motivo tu e questo grasso maiale di Valkis siete finiti a bordo?»

Boghaz si era svegliato, nel frattempo, e fu il grasso Valkisiano a rispondere, precipitosamente:

«Il mio amico e io siamo stati ingiustamente accusati di furto dai Sark! Un’accusa mostruosa… e quale infamia, quale vergogna! Io, Boghaz di Valkis, un uomo la cui onestà è certa come il sorgere del sole e delle lune, accusato di essere un volgare furfante! Ah, che orribile oltraggio alla giustizia!»

Il Khond sputò in un angolo, con aria disgustata, e voltò la testa.

«L’avevo immaginato,» borbottò.

Dopo qualche tempo, mentre la galera continuava ad avanzare sul mare di latte, con le vele turgide nel vento, Boghaz colse l’opportunità per sussurrare in un orecchio a Carse:

«Adesso sono convinti che noi siamo due ladri, condannati per qualche comune ruberia. Ed è meglio, è molto meglio che continuino a pensare così, amico mio!»

«E tu cosa sei, se non un ladro?» rispose brutalmente Carse.

Boghaz lo studiò astutamente, socchiudendo gli occhietti porcini.

«E tu, allora, che cosa sei, amico?»

«Mi hai sentito… io vengo da un paese lontano, che si trova al di là del Shun.»

Un paese lontanissimo davvero, al di là del Shun, e al di là di quel mondo, pensò cupamente Carse. Da un altro mondo e da un altro tempo, di là dallo spazio, e di là dall’oscuro fiume dell’eternità. Ma sapeva bene che non avrebbe potuto rivelare a quella gente l’incredibile verità sulla propria origine.

Il grasso Valkisiano si strinse nelle spalle.

«Se ci tieni a insistere su questa versione, per me va bene. Il fatto che io mi fidi di te dovrebbe essere implicito. Non siamo forse soci?»

Suo malgrado, Carse non poté reprimere un amaro sorriso, a quella incredibile domanda. Dopotutto, nell’impudenza di quel grasso furfante c’era qualcosa di divertente… qualcosa che riusciva a farlo sorridere, perfino nella situazione in cui si trovava.

Boghaz notò subito il sorriso.

«Ali, vedo che tu stai pensando al mio disgraziato tentativo di violenza nei tuoi confronti di questa notte. Devi credermi, è stata colpa della mia indole impulsiva. Dobbiamo dimenticarlo. Io, Boghaz, l’ho già dimenticato,» aggiunse infine, magnanimo.

«Rimane il fatto che tu, amico mio, possiedi il segreto…» abbassò ancor più la sua voce, riducendola a un lievissimo bisbiglio nell’orecchio di Carse, «…della Tomba di Rhiannon. È una fortuna che la grande ignoranza di Scyld gli abbia impedito di riconoscere quella spada! Perché il segreto, sfruttato bene, potrà fare di noi gli uomini più ricchi e potenti di Marte!»

Carse gli domandò:

«Perché la Tomba di Rhiannon è così importante?»

La domanda colse di sorpresa Boghaz, e il grasso Valkisiano non riuscì a dissimulare il suo sbalordimento. Trasalì, spalancò gli occhi, e disse:

«Vuoi farmi credere addirittura di non sapere nemmeno questo?»

Con voce blanda, Carse gli ricordò:

«Non hai sentito? Io vengo da un luogo così lontano, che questo, per me, è un mondo completamente nuovo.»

Il grasso volto di Boghaz mostrò una mescolanza di incredulità e di sorpresa, e una crescente perplessità. Lo fissò a lungo, e alla fine si strinse nelle spalle, e disse:

«Non riesco a decidere se tu sei veramente quel che dici di essere, o se fingi tutta questa abissale ignoranza per qualche tuo motivo personale.» Si strinse di nuovo nelle spalle. «In ogni modo, potresti sapere presto la storia dagli altri. Perciò, tanto vale che te la dica io.»

Cominciò a parlare rapidamente, sempre a voce bassa, e per tutto il tempo il suo sguardo non si staccò dal volto di Carse, come se il grasso Valkisiano avesse voluto penetrare il mistero del terrestre, o avesse voluto scoprirne le reazioni segrete.

«Perfino il barbaro vissuto nel più remoto dei paesi deve aver sentito parlare dei superuomini Quiru, che moltissimo tempo fa possedevano tutto il potere e la scienza, ed erano i depositati dei segreti dell’Antica Scienza, e di come il Maledetto tra loro, Rhiannon, peccasse grandemente, insegnando troppa sapienza ai Dhuviani.