Il grande Khond emise un suono sprezzante.
«I Dhuviani sono troppo astuti per fare una cosa simile! Certo, sono pronti a usare qualche volta le loro strane armi permutare i loro alleati Sark, questo te lo posso concedere. È per questo che l’alleanza esiste. Ma in quanto a dare delle armi a Sark, o a insegnare ai Sark il loro funzionamento… non sono certo così pazzi!»
Carse cominciava a farsi un’idea più chiara di quell’antico Marte, popolato da genti semi-barbare… a eccezione dei misteriosi Dhuviani. Essi, apparentemente, possedevano almeno una parte dell’antica scienza di quel mondo, e la custodivano gelosamente, usandola a proprio beneficio, e mettendola in certe occasioni al servizio dei loro alleati Sark.
Cadde la notte. Ywain rimase sul ponte, e le sentinelle furono raddoppiate. Naram e Shallah, i due Nuotatori, si agitavano irrequieti alla catena. Nel cupo, fumigante chiarore delle torce, i loro occhi erano grandi e luminosi, pervasi da qualche misteriosa eccitazione segreta.
Carse non aveva né la forza, né lo stato d’animo adatto, per apprezzare il prodigioso spettacolo del mare che ardeva nel chiarore delle lune. Le cose peggiorarono ulteriormente quando un forte vento contrario si levò, agitando ancor più le acque, producendo una eterna processione di onde, e raddoppiando così la fatica dei rematori. Il tamburo continuava a battere nella notte ardente, implacabile, monotono e cupo.
Una collera sorda, impotente, stava divorando Carse. Il suo corpo era un’unica sofferenza, ogni muscolo gli doleva, perdeva sangue dalle mani e dalla schiena, profondamente segnata dal morso implacabile dello scudiscio. Il remo era pesante, intollerabilmente pesante. Pesava più di tutto Marte, e pareva opporre resistenza, lottare contro di lui, come se fosse stato una creatura viva.
E qualcosa accadde al suo volto. I suoi lineamenti s’indurirono in un’espressione rigida, che dava al volto la fissità, l’immutabilità di una pietra. Ogni barlume d’intelligenza si spense nei suoi occhi, lasciandoli gelidi come ghiaccio, e fissi, allucinati, come gli occhi di un folle. Il rullo del tamburo si fondeva con il battito sordo, violento del suo cuore, che gli rombava sempre più forte nelle orecchie a ogni dolorosa vogata.
Un’ondata apparve altissima nella notte, gonfiando il mare bianco, e il lungo remo sfuggì alla presa di Carse, e l’impugnatura colpì il terrestre in pieno petto, togliendogli per qualche istante il respiro. Jaxart, che era esperto, e Boghaz, che era pesante, ripresero il controllo del remo quasi subito, anche se non abbastanza in fretta per evitare che il sorvegliante li insolentisse aspramente, chiamandoli carogne e incapaci, i suoi insulti preferiti, dando forza alle parole con alcuni rapidi colpi di scudiscio.
Allora Carse lasciò andare il remo. Si mosse così in fretta, malgrado le catene che lo appesantivano e gli impedivano in parte i movimenti, che il sorvegliante non riuscì a capire cosa stesse accadendo, fino a quando non si ritrovò disteso sulle ginocchia del terrestre, e allora non ebbe tempo per pensare, ma solo per cercare di proteggere la testa dai colpi dei polsi incatenati di Carse.
D’un tratto, tutti i rematori parvero impazziti. La battuta venne irrimediabihnente perduta, e la galera rollò pericolosamente, sotto l’assalto delle onde. Dai banchi dei rematori, molte voci ululavano, come ammali selvaggi risvegliati dall’odore del sangue. Si udiva gridare, intorno, ’a morte, a morte!’, ed era come se la follia fosse esplosa senza preavviso nella quiete ingannevole. Callus accorse immediatamente, e colpì Carse alla testa, con la pesante impugnatura dello scudiscio; il colpo fece perdere parzialmente i sensi al terrestre, sprofondandolo in un mondo di penombra, nel quale le grida e l’agitazione giungevano attutite. Il sorvegliante, in parte strisciando, in parte correndo, riuscì a ritirarsi al sicuro, sulla passerella, sfuggendo a malapena alla stretta poderosa di Jaxart, che aveva proteso le braccia verso di lui per finire l’opera iniziata da Carse, e che si ritrovò solo con l’aria da afferrare. Boghaz cercò di farsi piccolo piccolo, per quanto gli era concesso dalla sua mole, e non fece assolutamente nulla.
Dal ponte venne la voce di Ywain:
«Callus!»
Subito il capociurma si inginocchiò, tremando.
«Sì, Altezza?»
«Frustali, fino a quando ricorderanno di non essere più uomini, ma schiavi.» Il suo sguardo irato, impersonale, si posò su Carse. «In quanto a quello… è nuovo, vero?»
«Sì, Altezza.»
«Dagli una lezione.»
E gli diedero una lezione. Callus e il sorvegliante, insieme, gli diedero una lezione indimenticabile. Carse appoggiò la fronte sul braccio, curvo, e accettò la dura punizione. Di quando in quando, Boghaz lanciava un grido di dolore, quando un colpo di frusta sbagliava il bersaglio, e prendeva il grasso Valkisiano invece che Carse. Il terrestre vide, con occhi velati, che l’acqua che ristagnava ai suoi piedi si colorava lentamente di rosso, il rosso del suo sangue che scendeva, goccia a goccia, dalle ferite che gli scudisci aprivano nella sua schiena. La collera che lo aveva infiammato si raggelò, mutandosi, come il ferro si tempra sotto il martello.
E infine, essi si fermarono. Carse sollevò il capo. Fu lo sforzo più grande che egli avesse mai fatto, ma riuscì a sollevare il capo, rigido, dolente, con terribile, orgogliosa ostinazione. E guardò Ywain, la guardò negli occhi, e il suo sguardo era duro.
«Hai imparato la lezione, schiavo?» domandò lei, con arroganza.
Ci volle molto tempo, prima che la sua gola riuscisse a formare le parole, e le sue labbra impiegarono un tempo ancora maggiore per articolare, e produrre quei suoni gli costò una tremenda fatica. Ormai non gli importava più nulla di vivere o di morire. Tutto il suo universo aveva al centro la donna che stava diritta, arrogante e intoccabile, sul ponte, sopra di lui.
«Scendi tu a insegnarmela, se ne sei capace,» rispose, raucamente, e le rivolse l’epiteto più volgare del gergo delle strade, un epiteto che indicava come lei non avesse, dopotutto, nulla da insegnare a un uomo.
Per un momento, nessuno si mosse, o parlò. L’intera nave parve chiusa da una morsa di attonito stupore e di angoscia. Poi Carse vide impallidire il volto di lei, e allora rise, un suono rauco e terribile che riecheggiò sinistro nel silenzio. Poi Scyld sguainò la spada, e scavalcò la ringhiera, lanciandosi nella fossa dei rematori.
Nella luce rossigna, ondeggiante delle torce, la lama lampeggiò alta e lucente, mandando sinistri riverberi di fuoco. E in quel momento Carse pensò soltanto che aveva fatto davvero un lungo, lunghissimo viaggio, per trovare la morte. Aspettò che il colpo fatale si abbattesse su di lui, ma il fendente non venne, e allora, confusamente, si rese conto che Ywain aveva parlato… con un grido, aveva ordinato a Scyld di fermarsi.
Scyld parve esitare, e poi si voltò, sorpreso, e rivolse uno sguardo interrogativo a Ywain.
«Ma, Altezza…»
«Vieni qui,» disse lei, e Carse vide che lei stava fissando la spada che Scyld impugnava… la spada di Rhiannon.
Scyld salì lentamente la scaletta, e ritornò sul ponte; il volto del soldato aveva un’espressione perplessa, ma anche impaurita. Ywain gli andò incontro.
«Dammela,» ordinò. E, quando vide che egli esitava, senza capire, esclamò, bruscamente. «La spada, idiota]»
Scyld diede la spada di Rhiannon alla donna, e Ywain la guardò, rigirandola tra le mani, in modo che la luce rossigna delle torce la rischiarasse… Ywain studiò la fattura e la perfezione della spada, l’elsa, con il suo gioiello solitario, che ardeva di fuoco fumoso… e i suoi occhi si posarono, come affascinati, sull’iscrizione che appariva sulla lama, sul simbolo che vi appariva.
«Dove l’hai presa, Scyld?»
«Io…» balbettò il soldato, portandosi istintivamente la mano al collare rubato, evidentemente timoroso di ammettere la provenienza della spada.
Con voce secca, spazientita, Ywain esclamò: