«Di qua,» disse Penkawr.
Carse lo seguì in una oscura pietraia di massi antichi e sgretolati, torvi nel chiarore delle lune. Prese una piccola lampada a cripton dalla borsa che teneva legata alla cintura, e l’accese, tenendola al minimo, in modo che producesse solo un chiarore tenue, indistinguibile dal basso, poco più intenso del chiarore delle lune, la cui vista era impedita dai grandi massi che sorgevano tutt’intorno. Penkawr s’inginocchiò, e cominciò a frugare tra le pietre spezzate che coprivano il pavimento dell’antica casa, fino a quando non tirò fuori un involto lungo e stretto, avvolto in stracci.
Con una strana reverenza, quasi con paura, il ladro cominciò a sciogliere il fagotto. Carse s’inginocchiò accanto a lui. Si rese conto di trattenere il respiro, mentre osservava il movimento delle piccole mani brune e magre del marziano, mentre aspettava di vedere ciò che si trovava nell’involto. Qualcosa, nell’atteggiamento dell’uomo, l’aveva contagiato, comunicandogli una strana, irragionevole tensione.
La fioca luce della lampada trasse una scintilla di intenso fuoco da un gioiello, e poi riverberò lucente sul metallo. Carse si avvicinò ancor di più al ladro. Gli occhi di Pen kawr, subdoli occhi di lupo, gialli come topazio e sottili come fessure, si sollevarono per fissare lo sguardo azzurro e duro del terrestre; quello sguardo durò solo per un momento, poi il marziano guardò altrove, e, rapidamente, liberò l’oggetto che si trovava sul pavimento degli ultimi stracci che lo celavano.
Carse non si mosse. La cosa giaceva sul pavimento, tra loro, luminosa e ardente, e i due uomini la fissarono immobili, trattenendo il respiro. Il bagliore rossigno della lampada coloriva i loro volti, traendo dall’ombra grigia i lineamenti affilati; e gli occhi di Matthew Carse erano quelli di un uomo che assiste a un miracolo.
Dopo un momento d’attesa che parve protrarsi all’infinito, Carse tese la mano, e prese l’oggetto. Lo rigirò tra le mani, osservandone la bella e mortale snellezza bilanciata in modo mirabile, la lunghezza, l’impugnatura nera e la guardia che si adattavano perfettamente alla sua grande mano, la gemma solitaria, fosca e fumosa, che pareva fissarlo con saggezza viva, il nome inciso sulla lama nei caratteri più rari e più antichi. Parlò, e la sua voce non fu che un bisbiglio.
«La spada di Khiannon!»
Penkawr respirò di nuovo, allora, e nella penombra si udì il suo sospiro profondo, sibilante.
«L’ho trovata io,» disse. «L’ho trovata io.»
«Dove?» disse Carse.
«Non importa dove, io l’ho trovata. È tua… per un piccolo prezzo.»
«Un piccolo prezzo.» Carse sorrise. «Un piccolo prezzo, per la spada di un dio.»
«Un dio’ malvagio,» mormorò Penkawr. «Per più di un milione di anni, Marte l’ha chiamato il Maledetto.»
«Lo so.» Carse annuì. «Rhiannon, il Maledetto, lo Sconfitto, il ribelle tra gli dei del più remoto passato. Sì, conosco la leggenda. La leggenda di come gli dei vinsero Rhiannon, e lo gettarono in una tomba nascosta.»
Penkawr distolse lo sguardo, e disse:
«Io non so nulla di tombe nascoste.»
«Tu menti,» gli disse Carse, con voce sommessa. «Tu hai trovato la Tomba di Rhiannon, perché altrimenti non avresti potuto trovare la spada. Tu sei riuscito a scoprire, chissà come, la chiave della più antica leggenda sacra di Marte. Perfino le pietre di quel luogo valgono il loro peso in oro, agli occhi delle persone giuste.»
«Non ho trovato nessuna tomba,» insisté Penkawr, cupamente. Poi si affrettò ad aggiungere, «Però la spada, da sola, ha un valore immenso. Non oso venderla… quei lupi di Jekkara me la strapperebbero di mano, se solo la vedessero. Ma tu puoi venderla, Carse.» Il ladruncolo era scosso da un brivido, tanta era la sua bramosia. «Tu puoi portarla di nascosto a Kahora, e venderla a qualche terrestre, pronto a dare in cambio una fortuna.»
«E lo farò,» assentì Carse. «Prima, però, prenderemo gli altri oggetti che si trovano in quella tomba.»
Il volto di Penkawr era coperto di sudore, e la sua espressione tradiva un’intima sofferenza, un’intensità di dolore che si mescolava alla bramosia e alla paura. Carse vide succedersi sul volto del ladro dei sentimenti contrastanti, vide le sue labbra tremare, per un momento, ma poi il piccolo marziano bisbigliò, dopo un lungo silenzio:
«Accontentati della spada, Carse. È sufficiente.»
Carse capì che il tormento di Penkawr era provocato dal conflitto tra la cupidigia e la paura. E non si trattava della paura dei Jekkariani, ma di un’altra paura… una paura oscura e terribile, un terrore che doveva essere immenso e potente, per vincere perfino la cupidigia di Penkawr.
Carse imprecò, con disprezzo.
«Hai paura del Maledetto? Hai paura di un’antica leggenda, che il tempo ha intessuto intorno alla figura di un vecchio re, che da un milione di anni non è che uno spettro?» Rise, e mosse la spada, facendola scintillare alla luce rossastra della lampada. «Non temere, piccolo. Terrò a bada io i fantasmi. Pensa al denaro. Potrai avere un palazzo tutto per te, con cento adorabili schiave, pronte a farti felice a ogni tuo gesto.»
Vide ancora una volta la paura combattere con la cupidigia, sul viso del marziano.
«Laggiù ho visto qualcosa, Carse. Qualcosa che mi ia spaventato. Non so perché.»
La cupidigia vinse la sua battaglia. Penkawr si passò la lingua sulle labbra aride.
«Ma forse, come tu dici, è soltanto una leggenda. E laggiù ci sono dei tesori… perfino la metà che mi spetta basterà a rendermi ricco, al di là di ogni immaginazione!»
«La metà?» ripeté Carse, in tono ingannevolmente dolce. «Ti sbagli, Penkawr. Ti toccherà un terzo.»
Il viso del marziano si contrasse per l’ira, ed egli balzò in piedi, furibondo.
«Ma tu dimentichi che sono stato io a scoprire la Tomba! È stato merito mio!»
Carse si strinse nelle spalle.
«Se non accetti le mie condizioni, tieni per te il segreto. Tienilo… finché i tuoi ’fratelli’ di Jekkara te lo strapperanno con le pinze roventi, quando io avrò detto loro ciò che hai trovato.»
«Tu saresti capace di fare questo?» esclamò Penkawr, quasi soffocando per l’incredulità e la collera. «Saresti capace di raccontarlo, sapendo che mi uccideranno, per strapparmi il segreto?»
Il piccolo ladro fissò, con rabbia impotente, l’alta figura di Carse, che si ergeva nell’alone rossigno della lampada con la spada tra le mani, il mantello che gli scendeva dalle spalle nude, il coltello e la cintura sfolgoranti di gioielli, bottino strappato alla tomba di qualche antico re dimenticato. Non c’era alcuna dolcezza, in Carse. Né alcuna pietà. I deserti e il sole di Marte, con il loro freddo e il loro calore e le loro fatiche, con la fame e la sete e gli stenti e i pericoli senza numero e senza nome, avevano tolto al suo corpo e al suo spirito ogni fardello di debolezza, di grasso e di pietà, lasciando soltanto i muscoli ferrei e l’ancor più ferrea determinazione che ardeva nel suo sguardo.
Penkawr guardò il terrestre, e rabbrividì.
«Va bene, Carse,» disse. «Ti porterò alla tomba… per un terzo.»
Carse annuì, e sorrise.
«Lo sapevo che avresti accettato.»
Due ore dopo, essi cavalcavano sulle oscure colline consumate dal tempo, che s’innalzavano dietro Jekkara, e dietro il fondo del mare che era diventato polvere.
Era molto tardi, ormai, ed era un’ora che Carse amava, perché gli sembrava che allora Marte desse l’immagine più vera di sé, che rivelasse la sua essenza, senza veli e senza sfumature. A quell’ora il pianeta gli ricordava un vecchio, vecchissimo guerriero, avvolto in un nero mantello, con una spada spezzata tra le mani, intento a sognare i sogni della vecchiaia, quei sogni che sono tanto vicini alla realtà, e a ricordare l’eco squillante delle trombe, e le risate e la potenza e la gioia di un’età più giovane, perduta in tutto, se non nel ricordo.