Oltre la soglia si apriva una grande camera di pietra, uguale a quella che avevano appena lasciato.
Ma non c’erano oggetti, in quella nuova camera. Non c’erano troni d’oro e diademi e armature e monili.
In quella camera c’era soltanto una cosa.
Era una grande bolla di tenebre. Un’immensa, cupa sfera di oscuri Là vibrante, nella quale si muovevano minuscole particelle corrusche, luminose, che somigliavano a stelle cadenti viste da un altro mondo. E da quella mostruosa bolla di oscurità vibrante perfino la luce della lampada pareva ritirarsi, impaurita, cercando rifugio nelle accoglienti, familiari tenebre del breve corridoio e della soglia.
Qualcosa fece tremare Carse, qualcosa che era forse timore, superstizione, o forse una strana forza puramente fisica. Il corpo del terrestre sussiiltò, percorso da un innaturale, vibrante brivido di freddo. Sentì che i capelli, e tutti i peli del suo corpo, formicolavano, come se fosse stato al cospetto di qualche potente corrente elettrica; gli parve che la mente stessa affondasse per un istante in un gorgo oscuro, freddo e tenebroso e occulto, e il freddo innaturale gli penetrò perfino nelle ossa. Cercò di parlare, e non vi riuscì, perché aveva la gola serrata da un nodo di tensione e di ansia.
«Questa è la cosa di cui ti ho parlato,» bisbigliò Penkawr. «Questa è la cosa che ti ho detto di aver visto.»
Carse lo udì appena. Una congettura, un’ipotesi, così enorme che era impossibile afferrarla, gli aveva scosso in quell’istante la mente. L’estasi dello scienziato era sopra di lui, quell’estasi prodigiosa della scoperta che è tanto vicina alla follia.
Quella bolla cupa, palpitante, di tenebre… era stranamente simile alla tenebrosità di quelle nere macchie vuote, agli estremi confini della galassia, quei buchi neri nel cosmo che, secondo alcuni scienziati particolarmente audaci, sarebbero buchi nel continuum dello spazio-tempo, misteriose finestre sull’infinito al di fuori del nostro universo.
Era un concetto incredibile, certo, eppure c’era stata quella misteriosa, enigmatica iscrizione Quiru.,. affascinato dalla cupa bolla palpitante, malgrado l’aura di pericolo che si sprigionava da essa, Carse mosse due passi avanti.
Udì alle sue spalle lo scalpiccio dei sandali sul pavimento di pietra, il fruscio dei piedi di Penkawr che si muovevano veloci. Carse capì istantaneamente di avere commesso un errore, voltando le spalle al piccolo marziano deluso e astioso. Cominciò a voltarsi, sollevando, nel medesimo tempo, la lunga spada.
Prima ancora che Carse avesse potuto completare il movimento, sentì la spinta subitanea, brutale, delle mani di Penkawr contro la sua schiena. Senza alcuna possibilità di reagire, Carse si sentì sospinto verso quella minacciosa oscurità.
Avvertì un urto pauroso, violento, che si ripercosse in ogni atomo del suo corpo, e poi gli parve che il mondo precipitasse intorno a lui, sotto di lui, allontanandosi e svanendo nel nulla.
«Va a condividere la condanna di Rhiannon, terrestre! Ti avevo detto che avrei potuto trovare un altro socio!»
Il grido beffardo, crudele, di Penkawr, gli giunse da un’immensa distanza, mentre già egli stava precipitando in un nero infinito senza fondo.
Capitolo II
UN MONDO ALIENO
Carse ebbe l’impressione di precipitare in un abisso notturno, sospinto e sferzato da tutti gli ululanti venti dello spazio. Ed era una caduta senza fine, senza fine, nella quale ogni cosa era sospesa fuori del tempo, pervasa dall’eterno, agghiacciante orrore di un incubo.
Lottò, con tutta la feroce disperazione di un animale prigioniero dell’ignoto. Non si trattava di una lotta fisica, però, poiché in quel nulla cieco e urlante il suo corpo era inutile, inesistente. Si trattava di una lotta mentale, nella quale l’essenza intima del coraggio umano tentava d’imporsi, tentava di porre fine, con uno sforzo supremo di volontà, a quella caduta d’incubo attraverso le tenebre sconfinate.
E poi, mentre continuava a cadere in quel vortice di nulla, fu scosso da una sensazione ancor più orrìbile dell’esperienza che già stava vivendo. Dapprima confusa, poi sempre più forte, in tutto il suo essere si diffuse la sensazione di non essere solo in quel tuffo d’incubo attraverso l’infinito. Gli parve che una presenza oscura, forte e pulsante, si annidasse nelle tenebre, vicinissima a lui, cercando di afferrarlo, protendendo dita ansiose, avide, verso il suo cervello.
Carse fece un ultimo, disperato sforzo mentale, radunò tutta la sua volontà, tutto il suo essere, per tentare la prova suprema contro quell’allucinante nulla che lo inghiottiva avido per abissi senza fine. Gli parve allora che la sensazione di cadere diminuisse, che qualcosa rallentasse il tuffo nel nulla, e poi, finalmente, sentì scivolare sotto le mani e i piedi la solida roccia. Cercò di aggrapparsi, di muoversi, di non perdere quel contatto, di farsi avanti, e questa volta fu uno sforzo completamente fisico.
Poi, d’un tratto, scoprì di essere uscito dalla bolla tenebrosa. Si trovava di nuovo sul pavimento della camera segreta della Tomba.
«Per i Nove Inferni, che cosa…» cominciò a dire, con voce tremante, e poi s’interruppe… perché quella sua imprecazione pareva pallida e banale, squallidamente insufficiente a esprimere quello che lui provava, quello che ricordava della spaventosa esperienza.
La piccola lampada a cripton, sempre agganciata alla sua cintura, irradiava di nuovo il suo alone di luce rossigna, fugando le tenebre per un breve spazio, intorno; la spada di Rhiannon scintillava sempre tra le sue mani.
E la bolla tenebrosa era sempre là, a pochi passi da lui, cupa e minacciosa, percorsa dallo sfavillare veloce di voli e grappoli di scintille.
Carse si rese conto, allora, che quello spaventevole tuffo attraverso lo spazio tenebroso era avvenuto nel momento in cui era rimasto all’interno della bolla, anche se gli era parso che quella caduta per immensità oscure fosse durata per un tempo incalcolabile. E da questa constatazione, nacque una domanda, dentro di lui: quale trucco demoniaco di una scienza antichissima era in realtà quella bolla? Una risposta cominciò a formarsi, nella sua mente… probabilmente doveva trattarsi di un’anomalia nello spazio, di qualche oscuro, bizzarro vortice di energia che i misteriosi Quìru del passato più ancestrale di Marte avevano creato, e avevano reso eterno, capace di sfidare i secoli e i millenni.
Ma perché, dal momento in cui era entrato nella bolla, e ogni luce era scomparsa, intorno a lui… perché gli era sembrato di precipitare per distanze incalcolabili, attraverso un abisso senza fine… perché quelle tenebre erano sembrate così totali, così diverse da qualsiasi tipo di oscurità che egli avesse conosciuto, in tutta la sua vita?
E, soprattutto… che cosa aveva originato la spaventosa sensazione che aveva provato verso la fine della caduta, quando gli era parso che dita forti, adunche, cercassero avidamente di afferrare il suo cervello, di aggrapparsi alla sua mente, come se essa fosse stata un sostegno, un’entità solida in un mondo fatto di nulla?
Deve trattarsi di un’illusione dovuta all’antica scienza dei Quiru, pensò, confusamente, ancora scosso dall’esperienza. E le superstizioni e le paure di Penkawr gli hanno fatto pensare che sarebbe stato possìbile uccidermi, spingendomi dentro la bolla.
Penkawr.
A quel pensiero, Carse balzò in piedi, e la spada di Rhiannon sfavillò sinistramente nella sua mano.
«Maledetta la sua miserabile anima di ladro!»
Ma Penkawr non c’era. Non poteva essere andato lontano, però… non ne avrebbe avuto il tempo. Quando Carse varcò la soglia della misteriosa camera, sulle sue labbra aleggiava un sorriso minaccioso, che non era piacevole a vedersi.