Corse gridò. Roteò la lunga spada e descrisse un arco minaccioso, davanti a sé, e gli Jekkariani, armati di lame più corte, indietreggiarono.
Di nuovo, dalla parte delle banchine giunse il grido degli schiavi:
«Viva Khondor! A morte il Serpente, a morte Sark! Combatti, Khond!»
Capì che gli schiavi lo avrebbero aiutato, se avessero potuto farlo.
Una parte della sua mente stava ricominciando a funzionare, ora… quella parte che aveva a che fare con la lunga esperienza di sopravvivenza che aveva avuto sul rosso Marte del suo tempo, quella parte che lo aveva aiutato quando era stata in gioco la sua vita, e che per vecchia abitudine reagiva quasi automaticamente all’approssimarsi del pericolo. Notò che i primi edifici, alle sue spalle, distavano soltanto pochi passi. Allora si girò di scatto, e balzò avanti, mulinando rapida la spada lucente.
Per due volte la spada di Rhiannon colpì, affondando fuggevolmente nella carne, e poi Carse raggiunse la porta di una bottega di un fornitore navale, una posizione nella quale egli doveva proteggersi soltanto dagli attacchi frontali della folla. Era un piccolo vantaggio, certo, ma ogni secondo di vita che un uomo in pericolo riusciva a conquistare era un secondo guadagnato.
Continuò ad agitare la spada, davanti a sé, in modo da formare una scintillante barriera di acciaio, e poi gridò, in Alto Marziano:
«Aspettate! Io non sono un Khond!»
Dalla folla partirono delle risate sprezzanti e beffarde.
«Lui dice che non è di Khondor!»
«Ma se sono i tuoi amici che ti salutano, Khond! Ascolta i Nuotatori e i Celesti!»
Carse gridò:
«No! Io non vengo da Khondor. Io non sono di…» S’interruppe subito, allora, perché era stato sul punto di dire che lui non veniva da Marte, che lui non era un marziano.
Una fanciulla dagli occhi verdi, poco più che una bambina, si slanciò fin quasi ai margini del circolo di morte che la spada di Rhiannon disegnava nell’aria, davanti a Carse. Gli mostrò i denti, bianchi e aguzzi come quelli di un topo.
«Vigliacco!» gridò, «Stupido! Dove, se non a Khondor, crescono uomini come te, con i capelli pallidi e la pelle maiala? Da quale altro luogo potresti venire, goffa creatura dalla parlata barbara?»
Sul volto di Carse riapparve un’ombra dell’espressione aliena e bizzarra che la gente di Jekkara aveva visto al suo apparire, ed egli disse:
«Io vengo da Jekkara.»
Essi risero. Tutta la folla scoppiò in una sola, stridula risata, che dilagò irrefrenabile, fino a quando l’intera piazza non parve rimbombare di cupa, sprezzante allegria. E ora essi avevano perduto ogni timore che avevano potuto provare di fronte a lui. Ogni sua parola indicava che lui era ciò che aveva detto la fanciulla, un vigliacco e uno stupido, e ogni traccia di timore era scomparsa, nella gente di Jekkara, mentre la risata si spegneva, lentamente, e l’odio ritornava a scintillare nei loro occhi. E poi la folla si fece avanti, e lo attaccò, quasi con disprezzo.
E questo era reale, per Carse, qualcosa di reale dopo lunghe ore d’irrealtà e d’incubo. Quella solida massa di volti distorti dall’odio, quella solida siepe di corte spade affilate che avanzava verso di lui… cose reali, concrete, che lo riscossero completamente dal suo incubo, che diedero alla sua mente una nuova forza, insieme alla percezione immediata, violenta, del pericolo.
Rabbiosamente, mulinò intorno la lunga spada di Rhiannon, difendendosi, e la sua collera non era rivolta tanto a quella folla omicida che lo assaliva, quanto al destino che lo aveva scagliato in quel mondo remoto, che lo aveva messo davanti a quella folla inferocita.
Furono in molti a morire, trafitti dalla spada gemmata, e finalmente gli altri si ritirarono. Al sicuro dalla punta della sua spada, si fermarono a guardarlo, minacciosi, come sciacalli che hanno braccato un lupo. E poi, al di sopra del cupo, minaccioso brontolio della folla, si levò un grido di esultanza.
«Stanno arrivando i soldati di Sark! Ci penseranno loro a uccidere per noi questa spia Khond!»
Carse, ansimante, e con la schiena appoggiata alla porta sbarrata della bottega, vide una piccola falange di guerrieri dalla nera armatura e dal nero elmo aprirsi un varco tra la folla, comg una nave tra le onde.
Si dirigevano verso di lui, e già la folla di jekkariani stava gridando di gioia, pregustando avidamente il momento in cui egli sarebbe stato ucciso.
Capitolo IV
PERICOLOSO SEGRETO
La porta contro la quale Carse appoggiava la schiena cedette, improvvisamente, aprendosi verso l’interno. Barcollando, sorpreso, Carse indietreggiò, riparandosi nel buio dell’interno.
Mentre ancora barcollava, cercando di ritrovare l’equilibrio perduto nel subitaneo passaggio, la porta si chiuse pesantemente, con la stessa rapidità con cui era stata aperta. Sentì cadere una sbarra, e poi, nel buio, accanto a lui, udì una risata bassa e rauca.
«La porta li tratterrà per un po’. Ma faremo bene a uscire di qui in fretta, Khond. Quei soldati di Sark abbatteranno la porta.»
Carse si voltò, tenendo alta la spada, ma l’oscurità era fittissima, là dentro, tale da renderlo cieco. Sentiva odore di corda e di catrame e di polvere, ma non riusciva a distinguere alcuna forma.
Al di là della porta, cominciò a udirsi un martellare frenetico. E poi gli occhi di Carse cominciarono ad abituarsi all’oscurità, e riuscirono a distinguere confusamente una figura massiccia, corpulenta, che si trovava proprio accanto a lui.
L’uomo era grasso, carnoso, e flaccido, un marziano che portava un gonnellino che pareva ridicolmente esiguo, sul suo corpo enorme. Aveva un viso da luna piena, tutto raggrinzito e increspato da un sorriso rassicurante, mentre i suoi occhi piccoli, quasi affondati nel grasso, fissavano senza tradire alcun timore la spada insanguinata, che Carse brandiva.
«Io non sono né Jekkariano, né Sark,» disse il grassone, con voce rassicurante. «Io sono Boghaz Hoi di Valkis, e ho degli ottimi motivi per aiutare ogni uomo di Khondor. Ma ora dobbiamo andarcene in fretta.»
«Dove?»
Carse fece uno sforzo, per pronunciare quella breve parola, perché il combattimento nella piazza era stato terribilmente faticoso, dopo la lunga camminata che lo aveva portato a Jekkara… e, con un brivido, egli ricordò che, quando Penkawr lo aveva seguito dal locale di Madam Kan, era stata la fine di una giornata lunga e faticosa, e da allora non aveva avuto più riposo. Ansimava pesantemente, affannosamente, e sentivi il cuore martellargli in petto, e il respiro era faticoso e bruciante.
«In un posto sicuro.» Il grassone tacque, nell’udire il ripetersi del martellio alla porta, questa volta più violento. «Quelli sono i Sark. Io vado. Tu fa’ come vuoi, Khond… seguimi, o rimani qui.»
Si voltò, avviandosi verso la parte più buia del locale con un’agilità e una rapidità addirittura incredibili, per un corpo così grasso. Non sì voltò, per vedere se Carse lo stava seguendo.
Ma in realtà Carse non aveva scelta, e lo sapevano benissimo entrambi. Boghaz Hoi l’aveva salvato nel momento in cui egli stava per soccombere. E la sua mente era ancora confusa, percorsa da strane correnti di emozioni contrastanti; nei suoi pensieri, già s’insinuava la comprensione della realtà degli eventi che egli stava vivendo, e quella comprensione era più terribile ancora della minaccia che gravava su di lui. In ogni caso, egli non avrebbe potuto tenere testa alla minacciosa, crudele folla che lo aspettava, là fuori, né ai neri, poderosi soldati di Sark che stavano abbattendo la porta, e presto sarebbero riusciti nel loro intento. Così, egli si affrettò a seguire la grassa figura di Boghaz Hoi.